La sciatrice di Cortina d'Ampezzo racconta la sua storia tra salti, discese ripide e faticose risalite: "Una delle pratiche che mi ha aiutato di più ad allenare la mente è l'highlining: la camminata su una linea sospesa nel vuoto"
Quando si parla di freeride, il pensiero corre subito a chi, della montagna, ha fatto una scelta di vita. Silvia Moser è una di loro: atleta che ha scritto pagine storiche nel Freeride World Tour, seconda nella classifica mondiale 2015, oggi continua a vivere le Dolomiti con lo stesso rispetto e la stessa intensità di sempre. Sciatrice, arrampicatrice, esploratrice dell’equilibrio tra coraggio e consapevolezza, è diventata un riferimento per chi vede nello sport non solo la sfida, ma anche una forma di crescita personale. Il prossimo 13 novembre, Silvia sarà tra gli ospiti della tappa milanese dell’Arc’teryx Winter Tour, in programma al Base Milano: una serata dedicata alla cultura invernale, tra anteprime cinematografiche, testimonianze di atleti internazionali, incontri e mostre. Un evento speciale che unisce passione e responsabilità: l’intero ricavato sarà infatti devoluto a Protect Our Winters Italy (POW Italy), l’organizzazione no-profit che mobilita la community outdoor per proteggere le montagne. E durante la tappa lombarda dell’Arc’teryx Winter Tour, Silvia racconterà la sua storia: “Oltre alla carriera da professionista, oggi lavoro nell’azienda di famiglia che si occupa di distribuzione di bevande all’ingrosso. In più, ora che ho terminato i tre anni di formazione, ho la possibilità di aiutare gli atleti come figura di supporto: sono una counselor specializzata nel mondo sportivo”.
Perchè questa scelta?
“L’idea è nata dal fatto che, durante gli anni di gare, mi sarebbe stato d’aiuto avere accanto qualcuno che capisse davvero cosa stavo vivendo”.
Nel 2015 è arrivata seconda nel Freeride World Tour: quanto è stato importante quel risultato nella sua crescita personale e sportiva?
“È stato un passaggio fondamentale. Per la carriera, ha rappresentato una vera rampa di lancio: fino a quel momento, in Italia, il freeride era quasi sconosciuto. Quel podio mi ha permesso di uscire dall’ombra. Sul piano personale, invece, mi ha dato consapevolezza: ho capito di cosa fossi capace, quali fossero i miei mezzi. Battere atlete che fino a poco prima vedevo solo nei video, è stato incredibile”.
Il freeride è spettacolare ma anche rischioso. Come si costruisce la consapevolezza necessaria per affrontarlo?
“Serve sicuramente una buona dose di coraggio. Ma quello non mi è mai mancato. Fin da bambina, quando andavamo in fuoripista e vedevamo un salto, ero sempre la prima a provarlo. Ma la consapevolezza si costruisce nel tempo. Le esperienze, positive e negative, cambiano le persone. È un processo continuo”.
Ha vissuto momenti difficili in montagna, tra infortuni e la perdita di amici o colleghi. Che ruolo ha la paura nel suo sport?
“Serve avere paura: significa essere consapevoli dei rischi che si corrono. L’abilità sta nel saperla gestire, nel trasformarla in un’alleata senza permetterle di prendere il controllo. Conoscerla, accettarla e dosarla è fondamentale. Per me è una bussola: mi indica dove stare attenta. Però non deve essere lei a guidare”.
Come si prepara la mente, non solo il corpo, per affrontare una parete o un salto impegnativo?
“Ho sempre allenato la mente, non solo sciando d’inverno ma anche lavorando d’estate. Una delle pratiche che mi ha aiutato di più è l’ highlining, la camminata su una linea sospesa nel vuoto: è un esercizio di concentrazione pura, molto vicino a quello stato mentale che serve durante una discesa impegnativa. Ti porta in una sorta di trance, in cui tutto è perfettamente allineato e la performance diventa ottimale. Pratico anche l’arrampicata, e ho scoperto la respirazione circolare: una tecnica che mi consente di entrare in uno stato di focus profondo, in pochissimo tempo”.
Qual è la sua routine di preparazione atletica?
“Non sono una persona da routine. Fino ai sedici anni ho fatto parte della squadra di sci alpino agonistico: ciò voleva dire allenamenti serrati, tra palestra e pista. Non mi sono mai sentita a mio agio. Ho sempre preferito preparami “all’aperto”: sciare, fare telemark, risalite con le pelli, arrampicata. Oggi, avendo meno tempo, ho riscoperto la palestra: vado due volte a settimana. La vera preparazione per la gamba da sci, tuttavia, resta… lo sci stesso. Nel weekend cerco di immergermi nella natura dove sono nata: fa bene. Mi fa bene”.
Quali sono le sfide specifiche per una donna che fa freeride ad alto livello?
“La montagna è sempre stata un ambiente piuttosto maschile. Negli ultimi anni, però, è cresciuto un movimento femminile che sta dando valore al mio sport”.
C’è un messaggio che vorrebbe trasmettere alle ragazze che sognano come lei?
“Il messaggio? Vi sto cercando. Mi piacerebbe offrire supporto a una nuova generazione di freerider. Siamo pochissime. Soprattutto nella parte orientale delle Alpi, le giovani atlete si contano sulle dita di una mano. Vorrei contribuire a far crescere questa comunità”.
Qual è la prima regola che insegnerebbe a chi vuole avvicinarsi al freeride in modo responsabile?
“Non seguire ciecamente le tracce degli altri. Solo perché “qualcuno è sceso lì” non significa che sia un percorso sicuro. È fondamentale imparare a usare il materiale di soccorso. E allenarsi tanto, tantissimo. L’improvvisazione non puó essere accettata”.
Le manca l’adrenalina delle gare oppure oggi la trova in altre forme?
“Le gare, sinceramente, non mi mancano. Ne ho fatte tante e ho raggiunto obiettivi, da un certo punto di vista, inaspettati. Le Vibes, oggi, ci sono ogni volta che vado a sciare. Mi basta guardare le Dolomiti: ci vivo da 35 anni ma ogni volta che le vedo mi emoziono come la prima”.
(Crediti foto di copertina: Elisa Bessega)









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