L’ex punta di Inter e Nazionale : "La mia carriera in Italia iniziò benedetta da Don Nino. Via da Milano per Luciano, con Antonio per la fatica ho vomitato. Ora vorrei fare il ds"
La storia di Eder gira intorno a una parola che tocca entrambe le sue patrie, Italia e Brasile: destino. "A 17 anni, sul volo per Roma, incrociai un parroco italiano, Don Nino. Gli raccontai che stavo andando a Empoli per fare il calciatore e mi benedì. Il resto è stato un viaggio dove ho segnato e gioito. Mi sono ritirato nel 2024 da uomo felice".
Tutto merito di quella benedizione.
"La prima città italiana in cui ho giocato è stata Cascia, dove c’è Santa Rita. Credo alle coincidenze. Nel 2015 Don Nino scrisse una lettera alla Sampdoria dopo avermi visto segnare al debutto in Nazionale, contro la Bulgaria, e lo invitai a Genova. Nel 2018, il giorno dopo la vittoria contro la Lazio che ci garantì la Champions con l’Inter, volai da lui in Sardegna, a Buddusò. Il campo dell’oratorio è intitolato a me".
Mai avuto piani B?
"Mai. Da piccolo giocavo a futsal, poi a 13 anni passai al calcio, come attaccante. Mamma professoressa, papà politico. Ho i loro valori: gestisco un istituto che si prende cura di più 200 bambini malati di cancro. Nel tempo libero invece allevo cavalli con mio cognato: mi rilassa molto".
Come arrivò a Empoli?
"Il primo a notarmi fu Corvino, tra Lecce e Fiorentina. Nel 2003 andai un mese in Puglia, ma il viaggio fu un incubo. Avevo 16 anni e atterrai con un cartello con su scritto “minorenne”. I poliziotti pensavano trasportassi chissà cosa. Spiegai a gesti che ero lì per il calcio. Uscii dal gate di notte. Infine, scelsi l’Empoli per mantenere la parola data".
L’impatto fu traumatico?
"All’inizio sì. Allenamenti intensi, palestra, la “dieta a zona” di Cagni, che mi bastonava a fin di bene. Subii tanti infortuni. Chiamavo mio padre piangendo dicendo che volevo andare via, ma l’Empoli si prese cura di me. Dopo il debutto in Serie A andai a Frosinone e feci 21 gol in un anno e mezzo, in B. Poi al Castellani segnai 27 reti e centrammo la promozione in A. Mi volevano Roma, Milan e altri club, ma l’Empoli mi mandò prima a Brescia e poi a Cesena".
Lì si tatuò una frase, simbolo della sua carriera: "Non buttarti giù anche se c’è vento contrario".
"Di Santa Paolina. A gennaio 2012 la Samp era quasi in zona retrocessione, ma Iachini, avuto a Brescia, disse che l’obiettivo era la Serie A. Fu la scelta migliore della mia vita".
L’allenatore migliore al Ferraris?
"Mihajlovic. Mi disse che parlavano tutti bene di me, ma che al tempo stesso ero discontinuo. “Devi essere consapevole delle tue qualità. Se vinciamo sarà merito tuo, se perdiamo sarà colpa tua”. Mi tirò fuori il carattere. Senza di lui non sarei andato in Nazionale".
Quando arrivò la chiamata di Conte?
"Prima di un Sampdoria-Cagliari, nel 2015, Sinisa mi disse che Antonio e il suo staff sarebbero venuti a vedermi. “Oh, non è che te la fai sotto e fai una partita di merda?”, chiese scherzando. Un paio di settimane dopo, prima dell'Inter, fui informato della convocazione. Segnai su punizione".
Il Brasile non l’ha mai cercata?
"Solo voci. Si parlò di test amichevoli, ma quando chiamò l’Italia accettai subito. E a parità di scelta avrei optato per l’azzurro: lo dovevo al Paese".
Più facile imparare l’inno o affrontare un allenamento di Conte?
"Imparare l’inno! Con Antonio vomitai. Riscaldamento, tattica, palestra, test dello jo-jo, su e giù. Mi chiedevo: “Ma come si fa?”. Però poi volavamo...".
Cosa la stregò di lui?
"La coerenza. Tratta tutti allo stesso modo. L’ho visto incazzarsi persino con Pirlo".
A livello tattico, invece?
"Preparavamo gli schemi dozzine di volte, come il gol di Giaccherini al Belgio. Se l’esterno destro prendeva il pallone in un modo, io e Pellé dovevamo fare una cosa. Il gol alla Svezia fu magico. Se avessimo avuto fortuna ai rigori con la Germania, avremmo vinto l'Europeo".
Ma la delusione più grande fu un’altra.
"Italia-Svezia, maledetto spareggio. Colpa di tutti, ma Ventura non fu coerente. Belotti e Immobile giocavano anche quando non erano al 100%. A San Siro ci fregò la pressione, sarei potuto entrare nella ripresa: io e Insigne in panchina, poi ci fu quella scena con De Rossi. Eravamo sullo 0-0…".
Un altro rimpianto è il Leicester? Gennaio 2016...
"Avrei giocato dietro a Vardy, era fatta, ma Mancini e Ausilio mi fecero cambiare idea. Ranieri mi rispose da signore: “Se vuoi divertirti come un bambino vieni da noi”. Andai all’Inter… e giocai pochissimo. Il Leicester vinse il campionato".
Un bilancio dei suoi anni in nerazzurro?
"Su quasi 90 partite ne avrò giocate solo una ventina da titolare, ma sono felice del tempo trascorso a San Siro. Un orgoglio. Poi davanti c’era Icardi".
Era l’epoca di “consigli” di Wanda sui social.
"C’era imbarazzo, ma Mauro era sereno".
E lei come mai andò via?
"Per Spalletti. Non ho mai sopportato la sua ipocrisia. Allenatore top, ma come uomo... meno".
Dopo l’Inter scelse la Cina.
"Io e la famiglia Zhang eravamo amici, ma nel 2020, dopo la vittoria del campionato, sparirono tutti. Non abbiamo visto un euro per mesi".
Cosa vede nel suo futuro?
"Vorrei fare il direttore sportivo, ma per ora mi godo la famiglia. Mi sarebbe piaciuto tornare alla Sampdoria per chiudere lì. Ogni tanto rivedo i gol che ho fatto in quel periodo: che tempi…".










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