Il capitano degli irpini ricorda il sisma del 23 novembre 1980: "Facemmo un giuramento: avremmo sputato sangue per quella gente, ci salvammo con un ritmo da scudetto nonostante -5 di penalizzazione e due mesi senza stadio. Solo quel c... di Altobelli ci faceva sempre gol. Tra le macerie una signora mi disse..."
Chi vuole ascoltare il rumore dell’inferno può trovarlo su Youtube, qualche angelo della memoria l’ha digitalizzato. Il 23 novembre del 1980 alle ore 19.34 Radio Alfa sta mandando in onda un ritornello folk quando all’improvviso la musica si squarcia, tutto si squarcia, pure la terra. Il terremoto colpisce l’Irpinia come un pugno su una lastra di vetro e la fa a pezzi. Di interi paesi rimane solo polvere: quasi 3.000 morti e 9.000 feriti, 300.000 persone all’improvviso senza una casa e senza nulla. Ma un sorriso d’orgoglio, quello, ogni domenica non mancava mai: l’Avellino non crollò, né con il terremoto né con 5 punti di penalizzazione per il calcioscommesse. "Non ci dava una lira nessuno, nessuno voleva venire, per i giornali eravamo condannati alla retrocessione. È che gli esperti conoscevano i calciatori, non gli uomini", racconta 45 anni dopo Salvatore Di Somma, capitano di quei lupi e spesso usato come metro di cattiveria agonistica quando si parla di difensori.
Che quello non fosse un giorno qualunque si era capito fin dalla mattina.
"Sì, era novembre ma ad Avellino faceva un caldo estivo, la gente girava senza cappotto. Quel pomeriggio al Partenio battemmo l’Ascoli 4-2, un partitone, tutti felici. Ugolotti aveva fatto due gol e alcuni andarono a cena con lui perché doveva pagare da bere, io invece feci quello che facevo ogni domenica sera: mi fermavo al bar e prendevo un vassoio di paste per mangiarle con mia moglie e le mie bimbe".
Ore 19.34 a casa Di Somma.
"Le paste erano a tavola, accesi la tv, c’era Juve-Inter. A un certo punto parte un rumore acuto, come un ululato. Un secondo dopo le pareti, il tavolo, le luci, tutto cominciò a tremare sempre più forte. Mia moglie urlò 'il terremoto!', e lì capii cosa stava succedendo mentre la cucina e il salotto si sbriciolavano, muri e soffitto diventavano una cosa sola. C’era una sola via d’uscita. 'Prendi le bambine, ci buttiamo dalla finestra', dissi. Per fortuna eravamo al primo piano, riuscimmo a scendere. Corremmo fino a Piazza Libertà, dove pian piano arrivava gente, vidi un mio amico con la famiglia, lasciai mia moglie e le bambine con loro e cominciai a girare".
Che cosa vide?
"Solo le strade, intorno i palazzi erano crollati, polvere. Aiutavo chi potevo. Una signora col vestito strappato era seduta sul marciapiede e mi riconobbe. 'Salvatò, hai visto che tragedia?', mi fece. E piangeva, piangeva. Poi si asciugò le lacrime: 'Però che bella partita avete fatto oggi...'. Capito? Aveva perso la casa, forse anche i parenti, non aveva più nulla, ma pensava a noi. Ancora mi emoziona ricordare cos’eravamo per quelle persone".
Come si ricompattò la squadra dopo quella notte?
"Il presidente Sibilia ci spostò tutti a Montecatini, calciatori e famiglie, un grande gesto da parte sua. Nessuno aveva riportato danni, fortunatamente, se non ricordo male solo Mario Piga dovette farsi mettere dei punti alla mano perché si tagliò con un vetro. Ma la testa era sempre giù, a quella terra distrutta. Una sera riunii tutta la squadra nella hall dell’hotel e facemmo un patto di ferro, un giuramento: avremmo dovuto fare l’impossibile per salvarci, dovevamo sputare sangue per quella gente".
Per due mesi non avevate nemmeno lo stadio.
"Già, era stato occupato dai pompieri, lo usavano per far atterrare gli elicotteri".
Non giocavate solo per la gente, stavate anche con loro. Le foto della squadra, Juary in testa, nelle tendopoli erano su tutti i giornali.
"Quello che le dicevo prima: eravamo prima uomini e poi calciatori. Ogni lunedì mattina mi mettevo in macchina e andavo a visitare un paese nei dintorni di Avellino. Alcuni erano stati completamente rasi al suolo, al punto che conveniva fare una colata di cemento sulle macerie per rifarli da zero. Quelli che erano rimasti erano contenti di vedermi, i bambini sorridevano, era bello portare a quella gente un po’ di gioia. Anche i miei compagni lo facevano, tutti".
In campo però non facevate prigionieri.
"Giocavamo bene, eravamo forti ma soprattutto un gruppo di amici. Nella seconda parte del campionato tenemmo un ritmo quasi da scudetto. Ci salvammo all’ultima giornata, 1-1 in casa con la Roma. Segnò Venturini, due piedacci di piombo ma azzeccò una punizione miracolosa. Lì nacque la legge del Partenio: ad Avellino non si vince, gli avversari arrivavano che già lo sapevano, le storie che si raccontano su quell’ambiente sono tutte vere... E quell’anno avevamo un motivo in più per combattere. Se c’era una palla metà e metà doveva essere nostra, punto".
Era davvero cattivo come la dipingevano?
"Ma va, mai fatto falli cattivi. Ero... intimidatorio, diciamo. Facevo paura agli avversari perché ero deciso, tanti mi guardavano in faccia, vedevano lo sguardo duro e tiravano indietro la gamba lasciandomi la palla. Io e Cattaneo eravamo dipinti come cattivi, invece eravamo due pezzi di pane, persone tranquille e umili che in campo si trasformavano. Un difensore determinato come me non l’ho mai visto".
Perché?
"La Serie A era un traguardo che mi ero conquistato dal nulla, coi denti, lottando, me la volevo tenere più stretta possibile. Da piccolo non è che sia vissuto proprio tra rose e fiori... Giocavo in una squadretta a Castellammare, un giorno il presidente chiamò me e Ciccio Esposito. A lui fece: 'Ti vuole la Fiorentina'. E Ciccio: 'Subito'. Ci sarebbe rimasto 10 anni. A me disse: 'Ti vogliono Fiorentina e Juve Stabia, dove vuoi andare?'. 'Juve Stabia'. Magari avrei fatto un’altra carriera se avessi fatto un’altra scelta, ma sono felicissimo di essermi conquistato la Serie A lottando come ho fatto".
Ma un attaccante che le faceva paura c’era?
"Quel c... di Spillo. Da Paolo Rossi a Bettega gli attaccanti forti dell'epoca li tenevo tutti a bada, Altobelli no. Mi faceva sempre gol, un rompipalle mai visto".










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