Cesari: "Casarin si arrabbiava perché ero abbronzato. Riscuotevo le cambiali alle anziane, ma..."

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L’ex arbitro internazionale, oggi moviolista Mediaset: "Tifo Genoa, lo sanno tutti, per questo non l'ho mai diretto. Ho visto Diego palleggiare con una pallina da ping pong e dei mocassini terribili prima di Napoli-Bari, si avvicinò Joao Paulo e disse 'Ma io che gioco a fare?'"

Sebastiano Vernazza

Giornalista

4 novembre 2025 (modifica alle 08:25) - MILANO

È sempre abbronzato, senza differenza di stagioni: "A Genova, quando il tempo è bello, andiamo al mare anche d’inverno". Ha la erre arrotata e affilata: "Sono nato a Parma e lì sono rimasto fino ai 12 anni. Ho preso la erre dei parmigiani, discendenti di Maria Luigia (moglie di Napoleone, imperatrice dei francesi,poi duchessa di Parma, ndr), ma sono cresciuto a Genova e qui vivo. Mi sento genovese a tutti gli effetti. Amo questa città alla follia". 

Graziano Cesari, ex arbitro internazionale, oggi moviolista di Mediaset, perché i suoi si trasferirono da Parma a Genova quando lei era ragazzo? 

"Mio padre era un artigiano, soffiava il vetro. Mia madre una mondina, andava a raccogliere il riso. A un certo punto capitò loro la grande occasione di aprire un negozio di formaggi a Genova, in zona Marassi, a due passi dallo stadio. Si chiamava 'La casa del Parmigiano' e vendevamo tutti i prodotti alimentari d’eccellenza della nostra terra d’origine, prosciutto crudo incluso". 

È vero che si iscrisse al corso per diventare arbitro perché voleva perdere peso? 

"Era il 1974, vidi il manifesto che invitava a diventare arbitri e mi dissi che poteva essere un modo per combattere la mia tendenza a ingrassare". 

Forse era pingue perché mangiava troppo, nel negozio di famiglia trovava un ben di Dio... 

"Non mettiamola così. Vorrei che la gente continuasse a gustare i cibi meravigliosi di Parma". 

A 19 anni il diploma di ragioneria.

"Sì, ma non faceva per me. Lavorai per un’assicurazione, poi entrai in banca, mi misero all’ufficio cambiali e capii che non era il mio posto. Arrivavano queste donne anziane a pagare le loro rate, tiravano fuori il borsellino, contavano i soldi e il mio cuore si stringeva, provavo pena". 

E la sua carriera di arbitro correva. 

"Ero diventato magrissimo... Quando arrivai in Serie C, mi dissi che valeva la pena di provarci, sentivo che sarebbe potuto diventare il mio vero lavoro. Lo so che gli arbitri non sono professionisti, ma i rimborsi erano buoni e i miei mi hanno aiutato. Il resto lo ha fatto Paolo Casarin (all’epoca designatore, ndr): gli devo tutto, lo considero un secondo padre. Mi ha insegnato che un arbitro deve essere equo, di un’equità giusta. Mi diceva le cose in faccia. A volte esageravo e mi puniva". 

Casarin le fece tagliare i capelli e detestava la sua abbronzatura perenne.

"È vero. Durante i ritiri estivi a Sportilia, si incavolava di brutto perché, finito di mangiare, mi trasferivo sul piazzale a prendere il sole. Casarin mi voleva pallido, ma io per lui sarei buttato nel fuoco". 

Nel settembre ‘99, in Bayern-Valencia di Champions, annullò un gol a Claudio Lopez perché il tempo era scaduto. 

"Falso. Fischiai prima che Lopez segnasse. Poi è vero, l’attaccante del Valencia era lanciato verso la porta. Oggi non lo rifarei, userei la regola del buon senso. All’epoca ero giovane e interruppi l’azione". 

La decisione giusta di cui è più orgoglioso?

"Non lo so. Degli arbitri si ricordano soltanto gli errori. Non è giusto, ma questa è la legge". 

Il giocatore che la faceva arrabbiare di più?

"Posso dire questo: non ho ricordi delle voci di Zidane, di Figo, di Baggio, di Van Basten, di Maradona... I grandi non si lamentano, al massimo rivolgono all’arbitro uno sguardo". 

Maradona?

"Ho arbitrato la partita che gli costò la squalifica per doping e l’addio all’Italia, Napoli-Bari 1-1 nel 1991. Arrivo allo stadio, il magazziniere mi offre il caffé e, mentre lo bevo, si palesa Diego. Indossa dei mocassini tremendi, con dei fiocchetti. Qualcuno gli lancia un pallina da ping pong e lui comincia a palleggiarci con una naturalezza sconvolgente. Joao Paulo, il brasiliano del Bari, si avvicina e mi fa: 'Ma che c... gioco a fare io?'. E Joao Paulo non era scarso. Diego in campo veniva picchiato: mai un lamento". 

Lei non è stato sfiorato dalle inchieste. Nessuno ci provò mai, con Cesari? 

"Mai. E neppure da moviolista ho ricevuto pressioni, forse c’entra il mio carattere schivo e riservato". 

Lei sarebbe stato un arbitro migliore con il Var?

"L’avrei benedetto. Non dico che sia la panacea di tutti i mali, però un salvagente fondamentale e non se ne può più fare a meno. Noi eravamo in tre, arbitro e due assistenti, oggi sono una squadra tra campo e sala Var". 

Non trova che gli arbitri siano un po’ sudditi della revisione video? Ormai nessuno tiene il punto davanti alle immagini.

"I benefici veri li vedremo con la nuova generazione di arbitri: Zufferli, Marcenaro, Bonacina sono cresciuti con il Var. Detto questo, per fare l’arbitro servono coraggio, personalità e una buona dose di narcisismo". 

Che cosa farebbe per migliorare il calcio?

"Il Var a chiamata mi intriga tanto, perché coinvolge tutti. Introdurrei il tempo effettivo tipo basket, non è ammissibile che certe partite abbiano una durata reale di 45 minuti. Leverei l’immunità per le braccia sul fuorigioco. Le braccia servono per correre, sono attive". 

Cesari, lei per chi tifa?

"Per il Genoa, lo sanno tutti. Conduco il programma 'Gradinata Nord', su una tv genovese. Non ho mai arbitrato il Genoa perché ai miei tempi vigeva la territorialità. Avrei pagato per dirigere un derby di Genova, il più bello di tutti".

Genoa e Samp sono in crisi.

"Sono club con debiti, non hanno fatto mercato". 

Forse la città non regge più due squadre.

"Genoa e Samp hanno 50mila abbonati in due. La fusione mai. Ciascuno per sé, a prescindere dalle categorie. Il derby di Genova non deve morire".

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