Carlo Cudicini: "Papà e la sua leggenda. Seba Rossi simile a lui. I più forti? Donnarumma e..."

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Uno è stato portiere di un Milan vincitutto. Il figlio, ex nello stesso ruolo, per un giorno ha vestito la maglia che lo rese famoso e gli valse il soprannome di Ragno Nero. “Papà è stato un gentiluomo”

Fabrizio Salvio

Giornalista

18 ottobre - 00:57 - MILANO

In tuffo. In presa. In volo da un palo all’altro di una porta sul prato dell’Arena Civica, negli Anni 40 tempio del calcio milanese piazzato nel pieno centro della città. Vestito di nero, tutto di nero, come suo papà Fabio, che per il colore della sua divisa, e dopo una partita contro lo United a Manchester in cui aveva preso tutto e di più, era stato appunto ribattezzato il Ragno Nero. Lunedì 20 Fabio Cudicini – portiere del Milan tra il ’67 e il ’72, scudetto, 2 Coppe Italia e tutti i trofei internazionali vinti in rossonero – avrebbe compiuto 90 anni. Se ne è andato invece l’8 gennaio scorso, e il Milan ha voluto omaggiarne la memoria vestendo per un giorno il figlio Carlo, a sua volta ex portiere, con una replica della maglia che ha contribuito a consegnare alla storia il genitore. Quella maglia sarà in vendita negli store e sul sito del club, a disposizione di tifosi nostalgici e di chi non ha avuto la fortuna di assistere, dal vivo o in televisione, alle prodezze di quel numero uno (all’epoca il portiere non portava altro sulla schiena) così alto – 191 centimetri – per i suoi tempi.

Carlo, qual è stato il primo pensiero indossando quella maglia? 

“Il primo pensiero è andato ovviamente a papà. Subito dopo ho mentalmente ringraziato una società, il Milan, che ha dato tanto alla mia famiglia, perché anch’io sono cresciuto in rossonero e tutti i Cudicini tifano Milan. Mio padre smise di giocare un anno prima che io nascessi, nel ’73, quindi, dal punto di vista calcistico, lo conosco solo per averlo visto in vecchi filmati. Ma, se mi sono perso i suoi successi di calciatore, ho potuto vivere ed essere orgoglioso di quelli che, come persona, ha avuto fuori dal campo, dove è sempre stato considerato un gentiluomo”. 

Gentiluomo perché? 

“Perché agli occhi degli altri era umile, rispettoso, pacato, disponibile. E poi era molto alto, elegante in maniera inappuntabile... Sembrava circondato da un’aura, da una sorta di energia...Emanava una specie di tranquilla autorevolezza. Questo è ciò che trasmetteva a chi gli stava intorno e che gli altri testimoniavano a me bambino. Era considerato dai tifosi del Milan una leggenda, e non è un termine che uso tanto per dire”. 

Tenere la mano di un simile omone la faceva sentire protetto? 

“Sì, ma ne ero un po’ anche intimidito. Parliamo di tempi in cui la famiglia tradizionale era composta da un padre lavoratore – il mio, dopo il calcio, aveva aperto una ditta di moquette e rivestimenti di pavimenti – e una madre che si occupava della casa e dei figli. Papà non l’ho avuto accanto tantissimo insomma, ma oggi capisco quanto tempo mi abbia dedicato in realtà. Per esempio tutti i fine settimana, quando mi accompagnava alla partita che avrei giocato in campi da calcio sperduti nell’hinterland milanese. Ricordo i viaggi in macchina, i pareri e le emozioni che ci scambiavamo prima e dopo. Era un tempo tutto per noi. Mio padre c’è stato sempre, ma non si è mai inserito nel rapporto tra me e i miei allenatori, nonostante avesse i titoli per farlo”. 

Qual è il consiglio che le ripeteva più spesso? 

“Quello di ascoltare l’allenatore, appunto, e di lavorare duro, sempre. Aveva ragione: è stato proprio grazie al lavoro, che ho potuto andare oltre i miei limiti tecnici. È un insegnamento che trasmetto oggi ai giovani del Chelsea, dove dirigo il dipartimento che ‘disegna’ il percorso dei ragazzi dell’Academy, sia quelli interni al club, sia quelli in prestito”. 

Invece, l’elogio e il rimprovero che papà le ha fatto più spesso? 

“Mi viene difficile parlare di elogi perché non siamo una famiglia molto espansiva, diciamo. Certamente ha apprezzato la mia voglia di non mollare mai, di rialzarmi nonostante i tanti e gravi infortuni che hanno bersagliato la mia carriera. Quanto ai rimproveri, direi piuttosto un consiglio, anche in questo caso, espresso però con più fermezza del solito. Era il ’93, il Milan mi aveva dato in prestito al Como. Le cose erano incominciate abbastanza bene, poi un infortunio a un polso aveva dato inizio a un calvario durato un anno e mezzo tra un intervento chirurgico e l’altro. Avevo giocato 5-6 partite in condizioni precarie e le mie prestazioni ne avevano risentito. Fatto sta che una domenica, uscendo a piedi dallo stadio, i tifosi presero a insultarmi. Mio padre era con me. Io volevo fermarmi e replicare, lui mi prese per un braccio e disse, con forza: ‘Continua a camminare, non ti girare, vai’. Quel giorno ho imparato che è meglio contare fino a dieci prima di rispondere o reagire. Più che di un rimprovero, parlerei quindi di una lezione di vita”. 

Quando era bambino, Fabio le raccontava le sue imprese calcistiche, o lei gli chiedeva di farlo? 

“Non ho insistito abbastanza. Ho iniziato a fare domande più tardi, è un po’ il mio rimorso, ed erano domande relative soprattutto ai momenti difficili della sua carriera, perché quando si vince è più facile raccontare. Così ho saputo dei problemi che aveva avuto a Brescia, a Udine, anche a Roma, dove una volta era stato addirittura mezzo arrestato...”. 

Incredibile. Con un padre così, il suo destino di portiere era già scritto? 

“No, macché. Successe in quinta elementare. Organizzai insieme ad altri un torneo a 7 e il giorno della prima partita, mentre tutti sceglievano le maglie, io rimasi impegnato fino all’ultimo in questioni, diciamo così, burocratiche. Quando mi affacciai sulla cesta per prendere una maglietta, vidi che era rimasta solo quella da portiere. Non ricordo se qualche compagno o qualche genitore mi disse: ‘Vabbè, col cognome che hai, se qualcosina almeno hai preso da tuo padre, tanto male non devi essere’. Risposi: ‘Va bene, non c’è problema’. Finì in disastro, nel senso che arrivammo ultimi. Eppure, la squadra che aveva vinto il torneo contattò mio padre perché ci andassi a giocare, non so se perché tutto sommato il mio in porta l’avevo fatto o perché l’allenatore aveva ragionato allo stesso modo degli altri sul cognome. Era la San Giuseppe, squadretta oratoriana: comincio a 7, passo a 11, e a quel punto leggenda narra che, sempre mio papà, ricevette una telefonata dall’Inter, che mi invitava a un provino”. 

E lui...? 

“In famiglia vediamo solo rossonero, quindi chiamò il Milan: ‘Guardate che dovrei portare mio figlio a fare un provino con l’Inter...’ e dall’altra parte risposero: ‘No, no, portalo prima qua’. La mia avventura nel grande calcio parte così”. 

Rivedendo le videocassette con le parate di Cudicini senior, le è venuto spontaneo fare confronti tra i vostri rispettivi stili? 

“Fisicamente siamo stati due portieri diversi perché papà era molto più alto di me, per cui magari la reattività non era proprio il suo forte, però ovviamente ‘copriva’ la porta e le palle alte erano sue. Io, più basso, ero più agile”. 

Al netto del fatto che parliamo di epoche assai lontane tra loro, oggi esiste un portiere che in qualche maniera lo ricorda? 

“Difficile dirlo. Ai miei tempi, al Milan c’era Sebastiano Rossi che mi ricordava molto papà, alto e magro com’era”. 

Chi sono adesso i tre migliori in circolazione? 

“Donnarumma lo metto senz’altro, e non soltanto perché è italiano. Alisson è sicuramente un altro portiere che ha dimostrato negli anni costanza e, per un portiere, la costanza è fondamentale. E poi Maignan, e non per un fatto di cuore: l’anno scorso ha attraversato un paio di mesi di crisi, ma sai sempre cosa ti garantisce, e l’affidabilità è requisito fondamentale”. 

Perché la scuola italiana dei portieri è considerata la migliore in Europa? 

“Siamo stati i primi ad avere grandi preparatori di portieri. Abbiamo capito l’importanza del ruolo e di conseguenza eravamo 5 anni avanti a tutti, poi qualcuno ha iniziato a venirci dietro, vedi la Spagna. Gli inglesi, invece, sono sempre rimasti attardati. Dopo 26 anni che vivo qua, ancora mi stupisco del fatto che non riescano a produrre un portiere da top tre nel mondo”. 

Nel calcio sono però davanti a noi in tutto il resto: solo questione di soldi? 

“Alla base c’è il lavoro degli ultimi dieci anni che la federazione ha fatto sui settori giovanili. Lo certificano i risultati raggiunti da Under 18 e Under 21. Anche le nostre Giovanili ottengono buoni risultati, però poi troppo spesso a molti dei nostri ragazzi non viene concesso il passaggio nel calcio di alto livello. Non so se è mancanza di coraggio, però è un fatto che non riusciamo a produrre giocatori creativi come erano Del Piero e Totti. Tornando agli inglesi, ciò su cui devono spendersi sono gli allenatori: in Premier ci sono ancora pochi tecnici indigeni. Qui si gioca con più ritmo e intensità? Vero, ma ogni Paese ha la sua cultura e il suo stile calcistico. Noi badiamo più alla tattica e sarebbe sbagliato, forse pericoloso, voler imitare gli inglesi a tutti i costi”. 

Tornerebbe a lavorare in Italia? 

“Ho una figlia di 11 anni che vive a Londra, per me la cosa più importante è restarle vicino. E ho la fortuna di lavorare in un club tra i più importanti al mondo e nel campionato più bello. Però se mi chiamasse il Milan sarebbe difficile dire di no”.

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