Caldara, lettera al calcio: "Il mio corpo mi ha tradito, è ora di dirti addio"

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L'ex difensore di Atalanta e Milan ha annunciato il ritiro dopo i tanti infortuni, raccontando il periodo di depressione e la difficile scelta, per evitare di dover finire con una protesi alla caviglia

15 novembre - 10:06 - MILANO

Non è stato fortunato. E nella vita a volte la fortuna è tutto. Mattia Caldara sognava una carriera diversa da quella martoriata da infortuni che invece lo hanno costretto ad abbandonare il calcio a 31 anni. Lo ha fatto ufficialmente con una lettera aperta, proprio a lui, al calcio: "Un foglio bianco, una penna. Chiudo gli occhi, butto fuori l’aria. Li riapro, è arrivato il momento - attacca l'ormai ex difensore - Caro calcio, io ti saluto. Ho deciso di smettere. No, non è stato facile deciderlo. Non lo è neanche scrivere queste parole. 'Caro calcio, io ti saluto'. Continuo a rileggerle. Forse è un modo per accettarlo. Accettarlo un po’ di più. Ora ho trovato un po’ di tranquillità. Ma ci ho messo un po’ per prendere questa decisione. Tutto è nato a luglio dopo una visita da uno specialista: 'Mattia non hai più la cartilagine della caviglia. Se continui tra qualche anno dovremo metterti una protesi'. Il mio corpo mi aveva tradito. Questa volta, forse, in modo definitivo".

vita

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"Sono stati mesi difficili. Anzi, anni - prosegue Caldara - E non parlo solo di questa scelta, ma di molto altro. Parlo di quella che è stata la mia vita da quando il mio ginocchio si è rotto. Ricordo ancora il primo passo dopo il contrasto: ho sentito la terra cedere sotto il mio piede. Sono crollato. Prima fisicamente, poi mentalmente. Ero nel punto più alto della mia carriera, poi in pochi secondi è cambiato tutto. Con il tempo sono stato meglio, ma non sono mai stato bene. Mai più. Non sono più riuscito a tornare a essere quel Caldara. Ci ho provato, ma non era più possibile. Questa rincorsa a un’illusione mi ha logorato. Volevo essere semplicemente quello che ero stato, essere me stesso. Riprendere quel sogno che stavo vivendo e allo stesso tempo inseguendo. Quel sogno si era trasformato in un’utopia. Vedete, a volte il tentativo di raggiungere un’utopia può aiutare a camminare. Nel mio caso, invece, mi ha distrutto. Le aspettative mie e degli altri, sperare qualcosa di impossibile, frustrazione: era troppo per la mia testa, non ero pronto. Non sono stato bene. Non ero più me stesso, neanche con le persone che amavo. Non riuscivo più a camminare per strada a testa alta. Tristezza, frustrazione, buio. Non so se si chiami depressione. So, però, cos’ho provato. Ho deciso di lasciare andare. Non per dimenticare. Ho deciso di lasciare andare per riprendere in mano la mia vita".

un pallone

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"Sono grato al calcio. È stato il mio compagno di viaggio per 25 anni. Ricordo il mio primo allenamento. Mi aveva accompagnato il nonno. Ero arrivato e mi ero ritrovato davanti a questo campo immenso pieno di bambini. Non sapevo, forse, che sarebbe diventato la mia casa. Una casa che mi ha reso la persona che sono. La mia mente torna alle partitelle in oratorio con gli amici, ai tornei con l’Atalanta, ai viaggi in moto con papà e alla pasta preparata da mamma prima di andare a giocare. Tutto sempre con e per il pallone. Anche se ho rischiato di non diventare un calciatore. Avevo 17 anni, il tendine rotuleo si era lesionato. Non avevo ancora un contratto, temevo di veder svanire il mio sogno. È andata diversamente. Il 2 ottobre 2016 ho capito di poter diventare Mattia Caldara. La mia prima da titolare contro il Napoli. Venivo da anni di prestiti in B. Avevo il timore che anche quell’estate mi potessero mandare ancora via. Alla fine sono rimasto, vivendo momenti fino a poco tempo prima inimmaginabili. Ho iniziato a giocare, non sono più uscito. Da non essere conosciuto da nessuno, mi sono ritrovato a fare interviste tutti i giorni. Non ero pronto, non è stato semplice abituarmi a quel cambiamento. Nessuno ti insegna a gestire situazioni e pressioni simili".

rimpianto

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"Tante squadre si erano interessate a me in quei mesi. A dicembre sono stato preso dalla Juve. E in quel periodo la Juve era una realtà a parte, inavvicinabile. In bianconero, però, non ci ho mai giocato. Sono rimasto in prestito a Bergamo ed è stato giusto così. Non ero ancora pronto per un salto di quel tipo. A Torino poi ci sono arrivato nel 2018, senza però fermarmi. Venivo da stagioni in cui ero abituato a giocare e lì avevo davanti Chiellini, Bonucci, Barzagli. 'Abbi pazienza Mattia. Resta qui', mi ripeteva Giorgio. Ma io sapevo che non avrei trovato spazio. Sono rimasto poche settimane, solo per il ritiro estivo. Quando ho saputo dell’interesse del Milan ho accettato. Guardando indietro sarebbe stato meglio rimanere lì. Sono stato debole di testa. Mi avrebbe fatto bene rimanere in un mondo come quello della Juve, imparare da quei campioni, crescere stando con loro anche senza giocare tanto. Mi sono mancate un po’ di forza mentale e di maturità. Magari la mia carriera sarebbe stata diversa, chissà. È il più grande rimpianto che ho, l’unica cosa che tornando indietro cambierei. Vedete, gli infortuni e tutto ciò che ne è conseguito non è dipeso da me. Il non essere rimasto a Torino sì".

l'inizio della fine

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"Sono arrivato al Milan. Era la mia grande possibilità. In quei colori erano racchiuse le mie speranze. Ottobre, un allenamento come tanti altri. Stavo correndo, all’improvviso una sensazione mai provata pima, come se qualcuno mi avesse sparato sul tendine. Pensavo che qualcuno mi avesse calpestato la caviglia. Mi ero voltato a guardare: non c’era nessuno. Ricordo la faccia di Maldini mentre ero sul lettino. Leggevo il dispiacere sul suo volto: avevo capito tutto. Mesi per recuperare, a marzo ero pronto per scendere in campo. Sono rientrato in Coppa Italia contro la Lazio. 'Mattia Caldara è tornato'. Ero pronto per il mio debutto in campionato. Musacchio era squalificato, sarebbe toccato a me. Sarei tornato a giocare in Serie A, finalmente. Quanto avevo aspettato quel momento. Mi sentivo bene. Mi sentivo bene anche in quell’allenamento del giovedì. Avevo aspettato quel momento per un anno. Tutto finito in pochi secondi. Ho quell’immagine davanti a me. Borini mi cade sul ginocchio. “Crack”. Mi sono rialzato in piedi per tornare a correre, non potevo essermi rotto ancora. Appena ho appoggiato il piede, sono crollato a terra. La gamba non mi reggeva, il mio ginocchio era spappolato. Un suono, un secondo, un istante. La mia anima era devastata. Qualcosa era cambiato in me. Dal tendine mi ero ripreso, il ginocchio era diverso. Lo sentivo. 'Non tornerò più quello di prima'. Una pagina della mia vita si era chiusa per sempre. Io ancora non lo sapevo. In quella settimana la mia vita è cambiata. Cambiata per sempre. La mia testa non era pronta per sopportarne le conseguenze. 'Mattia Caldara è finito'.

calvario

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"L'inizio del mio calvario. Stava iniziando una nuova pagina della mia vita. Una pagina buia che sarebbe finita solo anni dopo. Nel mezzo un tendine rotuleo rotto e il problema alla cartilagine della caviglia che mi ha costretto a smettere. Ma tutto è cambiato con quell’infortunio al ginocchio. In quell’allenamento una parte di me è morta per sempre. Era stata messa la parola fine a delle pagine che avrei potuto scrivere. Pagine rimaste vuote, bagnate dalle lacrime e dalla frustrazione. Passi una vita intera dietro a un pallone. Poi basta un infortunio per cancellare tutto. Ogni giorno diventa uguale, fatto di dolore, dubbi, incertezza. Da vivere, passi a convivere. Convivere con una presenza costante, pesante, buia. Dal voler tornare ai tuoi massimi livelli all’arrivare a livelli accettabili e compatibili con il dolore provato. Un crack. Il mio mondo era stato (s)travolto. 'Quando finirà tutto questo? Quando avrò un po’ di pace?'. Il malessere mentale non è semplice da spiegare a parole. Finché non lo vivi, non se ne conoscono sembianze ed effetti. È simile a un velo. Invisibile, ma capace di opprimerti. Da fuori non si vede, ne osservi solo le conseguenze. E, con il suo silenzio assordante, piano piano ti cambia. Ti offusca i pensieri, ti fa perdere lucidità, ti crea una bolla in cui sei rinchiuso e di cui diventi prigioniero. Nuove realtà, nuove regole, nuove logiche. E così è stato per me. Un mio mondo fatto di malessere in cui ero convinto di stare bene. Cure, trattamenti e allenamenti continui. Doversi gestire. La testa che durante le partite è concentrata a non farsi male. Fingere di stare bene. Così per anni. Tanti pensieri che viaggiavano incontrollati nella mia testa. Ogni giorno. Ogni mattina. 'Devi tornare a essere il Caldara dell’Atalanta'. 'Continua a lavorare, devi farlo'. 'Ma Caldara quando rientra?'. 'Dov’è Caldara?'. Frasi, voci, dubbi. La testa era piena, i pensieri aumentavano. Incessanti, sfinenti. E io volevo dimostrare di esserci ancora. Dimostrarlo al mondo del calcio, a compagni e allenatori, ai miei cari, a me stesso. Aspettative, aspettative, aspettative".

chiuso in una bolla

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"Non riuscivo più a camminare per strada a testa alta. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo. Leggerezza e spensieratezza non facevano più parte di me. E quando vivi situazioni simili, non fai del male solo a te, ma anche alle persone vicine a te. Le spegni. Le contamini con il tuo malessere. Smettono di stare bene. E la responsabilità è la tua. A me è successo questo. Per mesi, anzi, per anni sono stato concentrato su di me e su quello che dovevo fare. Mi ero creato un mio mondo, una mia bolla fatta unicamente da me stesso, dai miei bisogni, dai miei problemi, dalle mie illusioni. Mia moglie e i miei genitori avevano paura di chiedermi come stessi per timore della mia reazione. Non ero io. Mi ero dimenticato di chi era al mio fianco e mi voleva bene e non me ne rendevo conto. Fino a quel giorno. 'Non ti riconosco più, non sei te stesso'. Risuonano ancora forti in me le parole di mia moglie. Anche papà me lo aveva confessato. Erano preoccupati per me. Glielo leggevo negli occhi. Non riuscivo più a essere per loro quello che ero sempre stato. Una sensazione che mi uccideva. Ho compreso col tempo il male che ho fatto. Sono stato attraversato da un profondo senso di colpa. Ho rischiato di rovinare quella che in fondo è l’essenza della vita: l’amore e la famiglia".

vivere di nuovo

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"Luglio 2025. Nuova visita da uno specialista. La prima che ho fatto insieme a mia moglie. Eravamo seduti davanti al dottore. 'Mattia'. Attimo di silenzio. 'Non hai più la cartilagine della caviglia. Se continui tra qualche anno dovremo metterti una protesi'. Il silenzio si fa più lungo e intenso. Avete presente quando vi viene detta una cosa che sapete ma che non vorreste mai sentirvi dire? È stato come sbattere contro la realtà. Era davvero la fine? Stavo davvero per chiudere quella pagina della mia vita che durava da quando ero piccolo? Dentro di me ancora non riuscivo ad accettarlo. Ho continuato ad allenarmi. Stavo recuperando da un problema all’adduttore. Fino a fine agosto mi sono allenato con l’idea di dovermi preparare per una nuova stagione. Dentro di me speravo che potesse arrivare una chiamata. Io continuavo a correre con il dolore. A fine agosto ho fatto delle punture di Trt, ovvero iniezioni di testosterone. 'Mattia l’ago non passa, non c’è spazio tra la tibia e il piede. Decidi tu, ma se continui così dovrò metterti la protesi'. In quel momento l’ho deciso. Mi sono convinto. 'Cosa vado avanti a fare?'. Ero in quella situazione nonostante avessi corso molto meno di quanto avrei fatto in un ritiro con una squadra. 'Che senso ha tutto questo?'. Era il momento di dire basta. Basta al calcio giocato e, soprattutto, alla sofferenza e al vuoto che da anni mi accompagnavano. Anni in cui mi sono nascosto da me stesso. Ho ripreso in mano la mia vita. Sto recuperando quello che ho perso. Anche se, a volte, perdersi serve. Serve per ritrovarsi in una prospettiva e consapevolezza diversa. È bello. Mi sono ripromesso di apprezzare ogni momento e ciò che ho. La vita ti può cambiare in un secondo. Voglio essere grato. E al calcio non posso che dire grazie. È vero, mi ha fatto stare male. Ma anche il dolore serve. Ho deciso di dirgli addio. Lo faccio per la prima volta con questa lettera. Ciao calcio, sono pronto a salutarti. L’ho fatto. Mi sento più leggero. Mi sento libero di essere me stesso, finalmente. Ripongo questa penna sul tavolo. Mi posso alzare da questa sedia e iniziare a camminare. Si abbassa il sipario. In campo ora c’è Mattia".

La Gazzetta dello Sport

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