È arrivato in Italia a 8 anni, da Kinshasa, luogo simbolo della boxe. Adesso ne ha 30 e tira anche bene. “Per il pugilato ho sacrificato una vita intera. Potevo studiare, trovarmi un lavoro come si deve”
Pare la scena di un film d’azione: davanti a un prato si ferma una macchina, scendono due uomini giganteschi. “Lui è Jurgen, lavoriamo insieme, un tipo tosto, fa Mma”, racconta Jonathan Kogasso. Ha un paio di punti sull’occhio sinistro, gentile omaggio dell’ultimo incontro con un bielorusso, “l’ho battuto ma praticamente abbiamo fatto a testate”, racconta mentre si mette all’opera. Kogasso fa il giardiniere da poco e il pugile da ben più tempo, combatte per professione - la siepe si doma facilmente, gli avversari sul ring meno - e perché ha sempre dovuto farlo. È un peso massimo leggero con un signor record (17 vittorie e 0 sconfitte) e un gran potenziale, ha un corpo da fumetto cesellato dalla palestra e da una vita non facile. La sua storia inizia in un posto del cuore per chi ama la boxe.
Kinshasa, nasci lì nel 1995.
“Sì, ero un ragazzino timido ma esuberante, cresciuto in fretta. Mia madre era commerciante e in casa c’era poco, vivevo con mio padre e vedendo lui sono cresciuto con l’idea dell’uomo che sa sempre fare tutto...”.
Mamma commerciante, papà...
“Militare, nel governo di Mobutu. Uno dei miei primi ricordi d’infanzia è di quando vennero ad arrestarlo. Era appena caduto il regime, fecero un blitz di notte per portare dentro tutti i suoi uomini. Io ero piccolino, non capivo che succedeva, si fece due mesi di carcere e poi uscì, per fortuna. Faceva boxe anche lui, sai? Ma non incontri ufficiali, combatteva per un pollo, cose così”.
E così hai iniziato a boxare...
“Macché, non ci pensavo nemmeno. Giocavo a pallone, centravanti, e facevo judo che in Congo è sport nazionale. Ai guantoni manco ci pensavo”.
A un certo punto, però, il piccolo Jonathan arriva in Italia. Come mai?
“Perché a Voghera c’era già una mia zia materna. Avevo 8 anni, i miei scelsero di mandarmi a vivere qui perché volevano un futuro migliore per loro figlio, in modo che magari un domani potesse aiutare la famiglia. E scelsero di fare tutto in maniera regolare, ci hanno messo un anno a preparare le carte ma sono arrivato in via ufficiale, non da clandestino”.
Scelta lodevole, ma complicata da capire per un bambino...
“Ero arrabbiato, non mi spiegavo perché volessero allontanarmi da loro. Quando presi il volo che mi avrebbe portato in Europa mamma voleva salutarmi prima che mi imbarcassi e io le dissi: ‘Non mi vuoi davvero bene, altrimenti non mi manderesti via’. Poi corsi verso l’aereo. Ci siamo rivisti solo 13 anni dopo, per tutto questo tempo l’unico ricordo di suo figlio è stata quella frase. Mio padre le ripeteva ‘tranquilla, capirà’. E aveva ragione, col tempo ho capito”.
Da Kinshasa a Voghera, un mondo nuovo.
“Mi sembrava di vivere in un film americano. Palazzi alti, freddo, la neve, tutte cose nuove. Ho imparato subito l’italiano, ho studiato, ho frequentato l’oratorio, ho giocato a pallone...”.
Pure qui? Non è che ci siamo persi un gran centravanti?
“No, per il calcio ci vuole talento e io non ne avevo abbastanza per fare carriera. Giocavo per divertirmi e a un certo punto non mi sono divertito più. Però volevo fare sport, dentro di me sentivo una gran voglia di competere”.
La boxe arriva qui, giusto?
“Sì, ero il tipico adolescente che non frequentava brutte compagnie ma passava le giornate in giro a fumare e non far nulla. Però un mio amico boxava e iniziò a pressarmi: ‘Sei fatto apposta per questo sport, vieni in palestra da me, prova’. Io non ci volevo andare ma mi ha preso per sfinimento e ho provato. E non ho più smesso”.
Come mai questo amore per uno sport mai fatto prima?
“Perché ho capito subito che fare boxe è come stare davanti a uno specchio, devi affrontare la tua vera indole. Nella vita di tutti i giorni puoi scappare, nel calcio te la puoi prendere col mister, con l’arbitro, coi compagni... Qui no, sei solo, se non arrivi dove vuoi l’unico che puoi incolpare è te stesso. Io l’ho fatto, ho imparato a conoscermi, ho capito i miei difetti e i miei limiti. Sai quante volte mi sono detto ‘ma chi me lo fa fare?'”.
Quante?
“Tantissime. Ma ho tenuto duro e ho trasformato il ragazzino scansafatiche e giocherellone che ero in un uomo che lavora e combatte. Nella boxe fatica e sofferenza sono tutto, più soffri e più cresci. E se non soffri in allenamento, poi soffri tre volte tanto sul ring. Quando lo capisci, vedi la fatica come un’amica da abbracciare. Il mio percorso è stato tutt’altro che lineare, ma tutte le vicissitudini e i problemi che ho passato mi hanno forgiato”.
Per esempio?
“Nel 2020, dopo aver fatto i Mondiali, potevo andare alle Olimpiadi col Congo, era tutto fatto, avevo già il biglietto per andare alle qualificazioni. Poi una settimana prima decidono che al mio posto sarebbe andato un altro. Ho visto svanire un sogno, lì ho deciso di passare professionista. Potevo farlo prima, mi hanno fatto perdere tre anni...”.
Nel 2020 avevi 25 anni, di cui 17 trascorsi qui. E l’Italia?
“Non ho ancora il passaporto, tra mille problemi burocratici. Ed è un’altra delle cose che mi fanno arrabbiare. Vivo in questo Paese da quando avevo 8 anni e ora ne ho 30, sono arrivato in maniera regolare, ho sempre lavorato e non ho mai fatto nulla di male. Ecco, penso che un caso come il mio dovrebbe essere trattato in maniera differente da altri. A breve spero di averlo”.
Hai sempre lavorato, dicevi.
“Ho iniziato come magazziniere, ho fatto la sicurezza nei locali, ho sgobbato in cantiere, in fabbrica e alle vendemmie in Piemonte, per due anni sono stato bibliotecario all’università di Pavia”.
E ora il giardiniere.
“Già. Non essendo laureato non potevo proseguire in biblioteca. Così un giorno passeggiando con Jurgen, che già lo faceva, gli chiedo: ‘Perché non lavoriamo insieme?’. Ci siamo messi in società, tagliamo alberi, potiamo siepi, facciamo giardini anche da zero. Una valvola di sfogo, ma anche un’entrata per continuare a seguire il mio obiettivo”.
E qual è il tuo obiettivo?
“Provare a toccare il tetto del mondo della boxe. Appena mi arriva la cittadinanza italiana voglio una chance per il titolo europeo. Intanto l’8 novembre combatterò a Milano in Taf 11 contro Deslaurier, poi per inizio anno vorrei un altro avversario di alto livello”.
L’ambizione non ti manca. In cosa pensi di poter migliorare?
“Il prossimo step devo farlo nella testa, tutto parte sempre da lì. A cominciare dal prossimo avrò match sempre più duri, voglio essere messo in difficoltà e assaggiare un livello superiore perché solo così si cresce, in qualsiasi ambito”.
Deslaurier, francese gitano, si inserisce bene in questa tua scalata.
“Non ha mai perso prima del limite, è più basso di me ma è uno parecchio tosto. Non vedo l’ora, più difficili sono i miei avversari più mi metto in testa che devo batterli facilmente. Quando si avvicina un combattimento entro in uno stato emotivo differente, poi quando entro nel palazzo mi trasformo. Mi passa per la testa tutto quello che ho sacrificato per essere qui, mi ripeto che magari un altro momento non lo avrò. E che quindi può esserci solo un risultato”.
Cos’hai sacrificato?
“Una vita intera. Se non avessi fatto questo avrei studiato, sarei andato all’università, mi sarei trovato un lavoro come si deve. Vivere come faccio io vuol dire togliere a me stesso e a chi mi sta vicino quasi tutto il tempo. Ma credo in quello che faccio, e il sacrificio è l’unico modo che conosco per ottenere risultati”.
Uno così era Kobe Bryant, a cui hai preso anche il soprannome: Mamba.
“Ah, il grande Kobe, sono sempre stato un suo fan... Da ragazzo mettevo la sua canotta e tutti gli amici: ‘Oh, è arrivato il Mamba’. Così il soprannome me lo sono tenuto, mi piace e si addice anche al mio modo di combattere”.
Ventidue anni in Italia. Se avessi la bacchetta magica cosa cambieresti?
Ride: “Il governo si può dire?”.
Spiega.
“L’Italia è il Paese più bello del mondo, davvero: cultura, cibo, paesaggi, bel clima, c’è tutto. In vacanza te lo godi, se ci vivi man mano ti accorgi che non è per tutti. Dalla classe media in su stai da Dio, chi è meno abbiente va aiutato. Dico aiutato e non assistito, perché spesso assistenza poi è sinonimo di nullafacenza. Intendo aiutato a lavorare, produrre. In Italia oggi, specie se non sei un lavoratore dipendente, devi fare il triplo per andare avanti, l’ho vissuto sulla mia pelle. Poi, certo, è normale che se ti metti a fare paragoni troverai sempre posti dove si sta peggio...”.
A proposito di Kinshasa, ma Rumble in the jungle ti dice niente?
“Me l’ha raccontato mio padre. Lui era allo stadio, l’ha visto dal vivo. Oddio, visto è una parola grossa, era tipo al sedicesimo anello... Ma quel giorno, mi dice, era il clima di festa a fare la differenza: tamburi, fanfare, canti, gioia, quell’atmosfera elettrica non si fermò un attimo, nemmeno quando venne a piovere. Da quel giorno tutti i ragazzini del Congo hanno desiderato di diventare pugili, peccato solo che il governo non fu in grado di sfruttare quella enorme passione”.
E se tuo figlio un giorno ti chiedesse di venire in palestra?
“Ce lo porterei. Con la boxe impari a conoscerti, impari quanto vale la fatica, impari una disciplina che magari è violenta ma molto più corretta di tante altre come il calcio. Impari com’è fatto un pugno per non doverlo mai usare, ma anche a difenderti se ti trovi in una brutta situazione. Poi, ecco, non vorrei che facesse il pugile...”.
I tuoi genitori ti hanno mai visto combattere?
“No, ma me li immagino sempre con me a bordo ring. A Kinshasa sono stato l’ultima volta 11 anni fa, mi piacerebbe tornarci presto. Da quello che mi raccontano i miei non è migliorata, non è facile per loro viverci né per me sentire certe cose. Ci sono giorni in cui va via la corrente e non puoi nemmeno caricare il telefono, altri in cui manca l’acqua e non sai se e quando tornerà. Io sono un pugile, ma i veri combattenti sono loro, che sanno soffrire senza mai farsi mancare un sorriso”.









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