I dati dimostrano che la bicicletta non è il problema della sicurezza stradale, anzi, ne è la soluzione. Ma in Italia il problema è anche culturale
Qual è un numero accettabile di ciclisti morti sulla strada? Facile: zero. È l’unico numero possibile, il numero a cui dobbiamo puntare tutti: legislatori, amministratori locali, automobilisti, essere umani. Purtroppo è un numero fantascientifico, lontano dalla realtà come vedere un alieno atterrare in cortile e uscire a passeggio con le antenne sulla testa. Il conto - dopo i tre amici travolti ieri a Terlizzi, in provincia di Bari - è di 130 ciclisti uccisi dall’inizio dell’anno sulle strade italiane. Erano 119 uomini e 11 donne, 11 scontri sono avvenuti soltanto negli ultimi 15 giorni, già 5 in questo principio di agosto, 4 soltanto in Puglia. Molte le vittime oltre i 65 anni di età (61 dall’inizio del 2025). La Lombardia è la prima regione in questa tremenda classifica, con 32 ciclisti morti, seguita da Emilia-Romagna con 22 e Veneto a quota 16. È il triste conteggio che fornisce l'Asaps, Associazione sostenitori e amici della Polizia stradale, che rielabora i dati aggregati dall'Aci e dall'Istat. Un’emergenza nazionale, un numero agghiacciante, che pure non tiene conto di tutte le altre vittime di questa carneficina: per le famiglie di chi non torna a casa si tratta di eventi che hanno l’effetto di un bombardamento, radono al suolo il passato, il presente e spesso anche il futuro. È un bilancio inaccettabile, ma lo ribadiamo: l’unico numero possibile e auspicabile sarebbe zero.
EMERGENZA
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Perché in Italia si muore così tanto in bicicletta? Purtroppo si rischia la vita tutte le volte che si decide di uscire con questo mezzo che dovrebbe rappresentare il futuro: pulito, green, l’emblema del viaggiare in libertà. Dappertutto tranne che da noi. Perché sulle strade italiane vige la legge del più forte, come nella giungla: il camion batte l’auto, l’auto batte i ciclisti e i pedoni. Questioni di dimensioni, di velocità. È una emergenza nazionale eppure sembra che l’argomento sicurezza non interessi a nessuno, finché non ci tocca personalmente. Chi ha sperimentato questa atrocità in alcuni casi sceglie di dedicare la vita a una battaglia per chi l’ha perduta. Marco Cavorso lo fa per suo figlio Tommaso, giovane corridore ucciso da un automobilista che stava sorpassando contromano su una striscia continua. Era il 2010, Tommaso aveva 13 anni, si stava allenando. E suo padre, dopo quindici anni di battaglia, deve ammettere di sentirsi sopportato, quando va bene. "È un problema di cultura, di educazione, ormai siamo alla seconda generazione, anche i genitori ormai sono maleducati".
la fondazione scarponi
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E ormai anche l’argomento della sicurezza stradale è diventato parte della polarizzazione politica, come se avesse senso tifare pro o contro la violenza stradale. Marco Scarponi nel 2018 ha creato la Fondazione Michele Scarponi per diffondere la cultura stradale a partire dalle scuole. Voleva che non capitasse più a nessuna famiglia quello che ha dovuto e deve patire la sua, quando suo fratello Michele - che si stava allenando per il Giro d’Italia - è stato ucciso a meno di due chilometri di casa. Era il 22 aprile 2017, da allora Marco si è messo a girare l’Italia e non si stanca di raccontare quello che è successo a Michele, quello che potrebbe succedere a ognuno di noi. Ma un conto sono i ragazzi, che capiscono e imparano, un conto è la politica, che sembra sorda. Le modifiche al Codice della Strada purtroppo sono sempre il risultato di un compromesso tra visioni opposte. Quello che si fa è poco, e poco efficace. La velocità uccide, e in Italia molti omicidi stradali sono causati dai mancati controlli sulla velocità. Dalla mancanza di azioni concrete. In Inghilterra vige il modello delle tre "E": engage, educate, enforce (coinvolgere, educare, far rispettare). Noi alla lettera E non ci siamo ancora arrivati, siamo rimasti all’ABC: quello che si fa è lasciato a iniziative come quelle della Fondazione Scarponi. È evidente che non basta. Altra questione che coinvolge le abitudini e l’educazione: all’estero parlano di "safety in numbers": più persone in bici ci sono sulle strade, e più le strade diventano intrinsecamente più sicure per tutti gli utenti, non solo per chi pedala. Lo dimostrano i dati di Paesi Bassi e Danimarca: i paesi d’Europa dove la bicicletta è maggiormente usata sono anche quelli in cui la sicurezza stradale è più alta. Quindi la bicicletta non solo non è il problema della sicurezza stradale, ma ne è la soluzione. Lo dimostrano i dati e le statistiche. Ma non è sempre stato così: Amsterdam e Copenaghen hanno fatto un lavoro in profondità, investendo massicciamente sulle biciclette, sulle infrastrutture e sulla sicurezza in generale.
UN PROBLEMA CULTURALE
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Abbiamo parlato di ciclisti uccisi, perché il linguaggio ha il suo peso. Non sono scomparsi, e neanche morti: sono stati uccisi. E non è mai un’auto o un camion a uccidere, ma la persona che era alla guida. Non sono tragiche fatalità, non è mai il destino che ti aspettava sulla statale, piuttosto è un artigiano che ha svoltato senza darti la precedenza, come nel caso di Michele Scarponi, o un camionista che ti ha schiacciato e ha fatto finta di non vederti, come nel caso di Davide Rebellin. Non sono incidenti: sono omicidi. Non esistono le auto pirata, i tir non impazziscono e le strade sono semplicemente strade, non sono killer. Gli oggetti non prendono decisioni, non scelgono, non hanno responsabilità. Noi invece sì. E se c’è una strage, c’è qualcuno che è colpevole di strage. Non sono le parole a doverci fare paura, ma la possibilità che una vita possa essere spenta in un attimo, perché dall’altra parte qualcuno non ha visto, aveva il sole in faccia, stava usando il telefono, mandando un messaggio, ascoltando musica, o andando troppo forte. Proviamo a pensarci la prossima volta che usciamo di casa con la nostra bici: proviamo a prendere in considerazione che sia l’ultima volta, e che non torneremo più. O peggio: che siamo noi a dover sopravvivere a chi amiamo. Anche cambiando il linguaggio possiamo fare un passo avanti: deresponsabilizzare chi è alla guida è grave. Purtroppo il problema non è soltanto la sicurezza stradale. Siamo di fronte a un problema culturale che non è nuovo nel nostro paese: non sentire la questione della sicurezza sulle strade come un’urgenza di tutti, che riguarda la vita di tutti, lo spazio che abitiamo insieme, la convivenza. Purtroppo ignorare questo problema contribuisce a incrementare quel triste bilancio di cui parlavamo in principio: vincono l’indifferenza e la prepotenza. Come purtroppo si evince chiaramente dai commenti social alla tragedia di Terlizzi. I ciclisti uccisi vengono anche derisi, umiliati, insultati. La Fondazione Scarponi ha intrapreso una lotta - anche legale - contro l'odio social: è come svuotare il mare con un cucchiaino, ma se non si comincia mai annegheremo tutti.