Cos’è il mankeeping: quando la gestione emotiva degli uomini ricade sulle donne

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Ci hanno insegnato ad accogliere, consolare, rassicurare. Ma siamo sicure che sia (solo) compito nostro?

Anna Castiglioni

14 ottobre - 18:07 - MILANO

C’è una scena che molte donne conoscono bene, anche senza nominarla: lui è silenzioso, distante, arrabbiato. Lei intuisce, chiede, accoglie, spiega, rassicura. Finisce per fare da mediatrice tra il suo malumore e la realtà, tra la sua chiusura e la quotidianità. È un gesto d’amore, certo, ma anche un lavoro invisibile. Un lavoro emotivo. Negli ultimi anni, questo comportamento ha un nome preciso: mankeeping, la gestione delle emozioni maschili che ricade, spesso in modo implicito, sulle donne.

Un concetto nuovo per un meccanismo antico

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Il termine mankeeping nasce nel dibattito femminista anglosassone e si colloca nel più ampio concetto di emotional labor (lavoro emotivo), studiato a lungo dalla sociologa Arlie Russel Hochschild. Descrive il modo in cui, all’interno delle relazioni eterosessuali, le donne finiscono per farsi carico del benessere emotivo dei partner uomini. Significa ascoltare, calmare, incoraggiare, prevedere i bisogni, contenere la rabbia, tradurre i silenzi. Significa, in altre parole, prendersi cura non solo dei sentimenti propri, ma anche di quelli dell’altro — spesso senza che questo venga riconosciuto come un impegno reale. Si tratta di un meccanismo tanto diffuso quanto invisibile: nella coppia, nelle famiglie, nei contesti lavorativi o di amicizia. È una forma di “cura” che le donne esercitano per abitudine culturale introiettata, più che per scelta consapevole, e che spesso si accompagna a un sovraccarico mentale.

Quando la cura diventa squilibrio

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La capacità di accogliere e gestire le emozioni altrui è una risorsa preziosa. Diventa però problematica quando non è reciproca.
Molte donne si ritrovano a essere il punto di equilibrio emotivo della coppia: si occupano del dialogo, della riconciliazione dopo un litigio, del benessere psicologico di entrambi. L’uomo, al contrario, può rimanere passivo o inconsapevole rispetto a questo lavoro silenzioso. Questo squilibrio si traduce in fatica mentale e affettiva. Le donne che fanno “mankeeping” tendono a mettere in secondo piano le proprie emozioni per mantenere l’armonia, finendo per sentirsi svuotate o non viste. Il rischio, nel lungo periodo, è quello di interiorizzare la convinzione che l’amore implichi prendersi carico del carico emotivo dell’altro, anche a scapito del proprio.

le radici culturali del mankeeping

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Il mankeeping non nasce dal caso, ma da una struttura sociale che per secoli ha educato uomini e donne in modo opposto: le prime alla cura, i secondi alla competizione e alla forza. Molti uomini, ancora oggi, crescono con l’idea che esprimere vulnerabilità significhi debolezza, e che il supporto emotivo sia qualcosa di femminile. Questo crea un circolo vizioso: gli uomini tendono a reprimere o delegare la gestione dei propri stati emotivi, mentre le donne, per abitudine e cultura, si fanno carico di colmare quel vuoto. È un copione antico, che si ripete anche nelle generazioni più giovani, seppure in forme diverse. Nelle coppie contemporanee il linguaggio è cambiato, ma spesso le dinamiche restano le stesse: lei “interpreta” i silenzi, lui “non sa come comunicare”. E così, il peso emotivo continua a distribuirsi in modo diseguale.

Young couple having arguments and sexual problems in bed

il costo invisibile del lavoro emotivo

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Il mankeeping può sembrare un gesto di disponibilità o di empatia, ma comporta un costo psicologico importante. Chi si prende costantemente cura delle emozioni altrui rischia di sviluppare iper-responsabilità affettiva, una forma di ansia che porta a sentire di dover risolvere tutto, proteggere tutti, anticipare i bisogni di chi si ama. Nel tempo, questo atteggiamento genera stanchezza, frustrazione e senso di solitudine. Si ha la sensazione di essere “la parte forte” — quella che regge — ma anche di non avere spazio per essere fragili a propria volta. La gestione unilaterale delle emozioni può compromettere anche la qualità della relazione. Quando una persona assume il ruolo costante di “regolatore emotivo”, l’altra rischia di non sviluppare strumenti di autonomia affettiva, mantenendo la coppia in un equilibrio precario.

La necessità di educare alla parità emotiva

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Rompere il meccanismo del mankeeping non significa smettere di prendersi cura, ma ridefinire la reciprocità. La cura, per essere sana, deve essere condivisa. Significa imparare a riconoscere che l’ascolto e il sostegno sono responsabilità di entrambi, che le emozioni non hanno genere e che anche gli uomini devono potersi confrontare con la propria vulnerabilità senza sentirsi giudicati. Nelle relazioni equilibrate, la gestione emotiva diventa un linguaggio comune: ci si ascolta, ci si sostiene, ma nessuno dei due diventa “l’adulto” dell’altro. Questo passaggio richiede consapevolezza, ma anche educazione emotiva, una competenza ancora poco coltivata nel nostro sistema scolastico e culturale. Superare il mankeeping significa insegnare nuove forme di intimità. Serve un cambiamento che inizi presto, nelle famiglie e nelle scuole, dove spesso si trasmettono modelli emotivi ancora sbilanciati: i maschi incoraggiati alla forza e alla competizione, le femmine alla dolcezza e alla comprensione. L’educazione affettiva dovrebbe insegnare che la vulnerabilità è parte della forza, e che la capacità di chiedere aiuto è una competenza relazionale, non una debolezza. Solo così sarà possibile costruire relazioni dove la cura non è un dovere, ma una scelta condivisa.

rimettere al centro della coppia la parità

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Il mankeeping ci ricorda che la parità non riguarda solo il lavoro o la carriera, ma anche la sfera emotiva. In molte coppie il linguaggio dell’amore continua a passare attraverso la capacità femminile di comprendere e contenere, mentre la crescita emotiva maschile rimane un terreno poco esplorato. Riconoscere questo squilibrio è il primo passo per cambiarlo. L’obiettivo non è smettere di prendersi cura dell’altro, ma imparare a farlo da pari a pari, con la stessa attenzione, lo stesso diritto alla fragilità e lo stesso bisogno di essere ascoltati. Solo in questo modo l’amore smette di essere un compito — e torna a essere un incontro.

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