Cathy sapeva volare. E per un attimo seppe anche dare dignità a un popolo umiliato

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Australia's Cathy Freeman wins the Olympic 400m final followed by South Africa's Heide Seyerling (L) and Mexico's Ana Guevara in Sydney 25 September 2000. Freeman won the gold medal ahead of Jamaica's Lorraine Graham and Briton Katharine Merry. (Photo by JEFF HAYNES / AFP)

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Sua nonna faceva parte della "stolen generation", nelle sue vene scorreva il sangue di quegli aborigeni che l'Australia non voleva. E Cathy Freeman scelse proprio Sydney per mettersi la sua tuta e mandare un messaggio al mondo

Alessandra Giardini

2 agosto - 12:52 - MILANO

"Vinci la tua gara e unirai l'Australia", le avevano detto. Ma era troppo anche per lei. Cathy Freeman aveva bisogno di sottrarre, non di aggiungere. E allora si chiuse la coda di cavallo nel cappuccio, per non sentire il rumore delle 112.524 persone che la stavano guardando dalle tribune dello stadio olimpico, per non pensare ai 19 milioni di australiani che stavano trattenendo il respiro in diretta tv. "Ricordo la prima volta che ho gareggiato. Mi sembrava che i miei piedi non toccassero mai terra. Mi sentivo come se stessi volando, anche a cinque anni. È lì che ho trovato la vera pace, è lì che mi sono sentita completamente libera e completamente felice". Lo aveva scritto anche sul tatuaggio sulla spalla destra, lato tribuna: Cos’ I'm free. Perché sono libera. Il 25 settembre 2000 si serrò la coda di cavallo nel cappuccio e fece quello che sapeva fare meglio, quello che l’aveva sempre fatta sentire più viva: corse, corse più forte che poteva per quattrocento metri. Gli ultimi cento in meno di 13 secondi, staccandosi a ogni passo dalle rivali nelle altre corsie e dal resto della razza umana. 

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