Pepito Rossi: "A Parma piangevo ogni sera. Che legnate allo United, un giorno sfidai Roy Keane e..."

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L'ex attaccante si apre alla Gazzetta: "Ero un ragazzino introverso, nessuno mi aiutava, il campo era l'unico mio rifugio. A Manchester mi conquistai il rispetto a muso duro"

Dal nostro corrispondente Filippo Maria Ricci

30 luglio - 23:51 - MILANO

Lacrime, sofferenza, cadute e risalite, drammi sportivi e famigliari superati in nome di una resistenza estrema, fuori dalla norma. La storia di Pepito Rossi è nota. Gli infortuni in serie, anni di calcio perduti come due Mondiali negatigli in maniera dolorosa, una vita con grandi ferite. “E infatti non me la faccia raccontare per l’ennesima volta, che non ho voglia di fare terapia, la sanno tutti e mi mette un’angoscia…”, dice dal New Jersey, dove sta seguendo gli allenamenti dei ragazzi del suo Campus. Ok. 

E allora visto che è circondato da bambini torniamo all’estate del 1999, quando dagli Usa arrivò al Parma. Aveva 12 anni. Che rapporto aveva con l’Italia? 

“Magnifico. Ogni estate partivamo da Clifton, New Jersey, e passavamo un mese e mezzo in Italia. La base era Fraine, il paesino da 500 anime dov’era nato mio padre, in provincia di Chieti. E poi Acquaviva di Isernia, Molise, altra piccola frazione da dove era partita mia madre, e il mare a Vasto”. 

I suoi come si erano incontrati? 

“A scuola, a Clifton, dove insegnavano entrambi. Papà era arrivato in America a 16 anni, mamma a 13”. 

Fraine, diceva. 

“A me sembrava New York. Io vivevo nella tipica villetta a schiera dei telefilm americani e mi potevo spostare solo in macchina, non c’era un senso di quartiere, era una vita molto chiusa in casa, e tra i bambini vicini nessuno voleva giocare a calcio. Pensavano solo al basket, al football, al baseball e io facevo i due contro due con mio padre mia madre e mia sorella. Lì a Fraine c’era questo campetto in cemento e ci passavamo le giornate con partite interminabili, e poi la sera in piazza calcio e musica, la libertà assoluta, giravamo indisturbati, noi senza pensieri i genitori senza preoccupazioni. Mi sembrava di avere 30 anni”. 

E a Parma come arriva? 

“A un certo punto della vacanza mio padre mi portava una settimana a Tabiano Terme a una scuola calcio estiva. Ci sono andato 3 anni e li mi ha visto un osservatore del Parma”. 

Decisione tosta. 

“Tremenda. Dentro di me non volevo andare, ma non volevo deludere papà. E così io e lui ci siamo trasferiti a Salsomaggiore e mamma e Tina, mia sorella, sono rimaste a Clifton. Durissimo: in casa parlavamo 40% italiano e 60% inglese, e a livello di scrittura soffrivo da morire, così come in francese e matematica, materia che in Italia è molto più avanzata che in America. Io ero un ragazzino timido, introverso, faticavo a fare amicizia e i professori pensavano che fossi li solo per il calcio e non mi aiutavano minimamente. E la nostalgia. Ho pianto tutte le sante sere fino a quando mamma non è venuta a trovarci: era passato un mese e mezzo, mi sembravano 3 anni. Stavo bene solo in campo. Quello era il mio rifugio, l’unico posto dove respiravo e mi sentivo a mio agio”. 

E per complicarsi ulteriormente la vita a 17 anni è finito allo United di Sir Alex Ferguson. 

“Avevano un osservatore in zona, e un giorno di maggio del 2004 mi si avvicina, mi regala una spilletta del Manchester United e mi dice che mi vogliono. Penso sia uno scherzo, passo il numero a papà ed è tutto vero. Un contratto importantissimo per 4 anni, e la possibilità di allenarmi con la prima squadra di quello che allora era il club più importante d’Europa”. 

Il primo incontro con Sir Alex? 

“Alla firma. Una sorpresa: una persona austera ma affettuosa e attenta, vicina, una figura paterna abituata a trattare i giovani come dei gioielli, a proteggerli e stimolarli per farli crescere al meglio come persone e come calciatori, con valori e regole molto precise e delineate. Ci siamo trovati perché io avevo grande ambizione e grande educazione, mio padre mi aveva tirato su in maniera molto precisa in questo senso, se sgarravo mi metteva in riga immediatamente”. 

E in allenamento? 

“Incredibile. Un altro pianeta. Un altro sport rispetto a quello a cui ero abituato. Velocità bestiale e intensità brutale. Ha presente la famosa frase, ‘Si gioca come ci si allena’? Beh, mio padre me la ripeteva sempre e lì allo United era così però moltiplicato per mille. In allenamento non c’erano amici: calci, spintoni, aggressività”. 

E lei 17enne attaccante minuto come ha reagito? 

“Ho capito in fretta ciò che dovevo fare. Talento ne avevo, dovevo usarlo per conquistare il rispetto e la fiducia di quei mostri. Fisicamente ero indietro, me la dovevo cavare con tecnica e intelligenza”. 

E quindi? 

“Pensare a una nuova velocità. Prima che arrivasse la palla dovevo sapere già cosa farci. Altrimenti Gary Neville o Nemanja Vidic erano li a darmi la sveglia. Certe legnate… C’è un aneddoto che fotografa alla perfezione il mio stato mentale di allora. Roy Keane nella sua autobiografia ha raccontato che una volta in allenamento aveva cazziato un giovane italiano perché non gli aveva passato la palla e questo ragazzo aveva risposto con uno sguardo duro, di sfida. 'Se mi avesse detto qualcosa l’avrei colpito. Restò zitto ma il suo sguardo era chiaro, mi mandava a quel paese. Pensai di andare a dargli la mano', ha scritto. Quel ragazzo ero io. E non ricordo assolutamente l’episodio: evidentemente ero in trance agonistica, in allenamento! La mia determinazione a fare carriera era assoluta”. 

Quando è arrivato a Parma ha mai pensato di mollare tutto e dire a papà, ‘Torniamo a casa’?. 

“Si, tante volte. Ma non glielo ho mai detto, e nemmeno a mia madre, a nessuno. Non volevo deluderlo ma soprattutto non volevo perdere, e volevo essere io ad aver l’ultima parola. Come con gli infortuni, più avanti nella mia vita: sono sempre tornato, sarei stato io a decidere quando mollare, non un medico o un dirigente, ed è andata così: mi sono fatto le mie ultime 5 partite con la Spal e ho smesso”. 

Conclusione? 

“Le difficoltà aiutano, sono necessarie in un processo di crescita e di apprendimento. Sono stato fortunato a doverle affrontare tanto giovane, con l’aiuto di papà. Quando è mancato, nel 2010 quando avevo 23 anni, ero pronto, mi aveva preparato per la vita, e quindi per quello che avrei passato dopo. La sofferenza del Pepito adolescente è stata fondamentale perché il Pepito uomo superasse le grandi difficoltà che ha trovato sul cammino”.

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