Aldo, ex attaccante di Inter, Milan, Juve e Nazionale, ora commentatore tv: "Non sono mai stato un rigorista... Mi chiamò Pellegrini per cedermi alla Juve ma c'era Springsteen in concerto"
Aldo Serena in realtà Antonio, detto Tonino...
"Quando sono nato, i miei genitori incaricarono mia nonna di registrarmi in Municipio come Antonio, il nome che poi comunicarono al parroco per il battesimo. Lei però, senza dire nulla, all’anagrafe dichiarò il nome Aldo, quello di mio nonno, scomparso l’anno prima. La verità venne fuori in prima elementare, all’appello della maestra. Mia nonna confessò… Sono Aldo, ma a Montebelluna per tanti sono rimasto Tonino".
Cresciuto in provincia di Treviso, nella Montebelluna degli anni Sessanta: scuola… e lavoro.
"Dall’età di 8 anni passavo i pomeriggi ad aiutare papà nell’azienda di mio zio. Facevamo scarpe per la montagna, da roccia e da sentieri. Erano altri tempi, ci stava che i bambini aiutassero i grandi. L’esperienza mi ha temprato. Quando ho debuttato in A nell’Inter, sotto la curva Nord di San Siro vidi che c’erano tutti gli operai della fabbrica e la cosa mi diede tanta carica in più. Quando segnai, corsi verso il loro settore per esultare con loro".
Dagli archivi viene fuori che in camera aveva il poster di Gianni Rivera, fuoriclasse del Milan. Lei non era interista?
"Super interista, però, a 12-13 anni, mi portarono con altri ragazzi a un provino a Milanello e ci regalarono un poster con l’autografo di Rivera, che quel giorno non c’era, perché in Nazionale. Il provino andò male. Non presero nessuno, io ero piccolino, all’epoca alto un metro e 56. Mi rimase il poster come consolazione".
Quali erano i suoi giocatori di riferimento?
"Gli irregolari, quelli con i calzettoni giù: Best, Meroni, lo stesso Oriali, e uno svedese, Edstrom".

Dal basket ha preso l’elevazione per il colpo di testa, il suo pezzo forte da calciatore?
"Sì, all’oratorio passavamo dal calcio al basket e viceversa. Su TeleCapodistria guardavamo le partite del campionato jugoslavo di basket. Volevamo essere Cosic e Dalipagic… La pallacanestro mi ha insegnato a saltare e a giocare duro, però per il canestro non avevo l’altezza giusta. Mi sono fermato a un metro e 87, poco".
Serena bravissimo di testa, tanto che l’Avvocato Agnelli coniò per lei uno dei suoi famosi aforismi: 'Serena è forte dalla cintola in su'.
"Una frase un po’ velenosa e ingiusta, al punto che il giorno dopo mi chiamò Giampiero Boniperti (il presidente della Juve di allora, ndr): 'Aldo, ho appena sentito l’Avvocato e gli ho detto che non doveva dire questa cosa perché con te abbiamo trovato l’erede di Bettega, e non è vero che sei abile soltanto di testa'. Qualche partita dopo, l’Avvocato, al microfono di Franco Costa della Rai, disse: "Non pensavo che Serena fosse tanto forte". E cominciò a telefonarmi all’alba, tra le 5.30 e le 6, come capitava a tanti. Suonava il telefono: "Casa Agnelli, le passo l’Avvocato". La prima volta ero rintronato, poi imparai a svegliarmi di botto e a simulare una certa lucidità. L’Avvocato voleva sapere tutto e chiedeva sempre dei prossimi avversari, un segnale. La domenica mattina lo incontravamo nel ritiro di Villa Perosa, prima della partita al Comunale. Si presentava con i suoi cani, due husky, e per lo più faceva battute con Platini, il suo preferito".

Dall’Inter alla Juve, nell’estate del 1985. Una trattativa lunga, segnata da un evento musicale, giusto?
"Ero al Torino in prestito dall’Inter e sembrava che dovessi restare in granata. La Juve però mi voleva e all’Inter interessava Tardelli. Mi chiama Ernesto Pellegrini, il presidente dell’Inter: 'Serena, le devo parlare, venga da me la sera del 21 giugno'. E io: 'Presidente, la sera del 21 non posso, facciamo un altro giorno, la prego'. E lui: 'No, ho l’agenda piena, ho un buco soltanto lì. Perché non può?'. Ancora io: 'Perché ho i biglietti per il concerto di Bruce Springsteen a San Siro'. Pellegrini non sa neppure chi sia e mi dice di andare lo stesso a casa sua, verso mezzanotte, tanto lui abita vicino allo stadio. Così esco prima da San Siro, mi perdo i bis del Boss, al suo primo concerto in Italia, e mi dirigo a casa Pellegrini. Parcheggiata la macchina, mentre mi cambio i vestiti perché sono sudato, da un cespuglio spuntano due giornalisti, Franco Ordine e Fabio Monti. Salgo e Pellegrini mi annuncia la cessione alla Juve in cambio di Tardelli. Scendo e vengo torchiato dai due cronisti".

La sua canzone preferita del repertorio di Springsteen?
"Born to run, nato per correre. A giugno ho chiuso un cerchio, sono andato al concerto del Boss a San Siro, quarant’anni dopo. Springsteen, 75enne, ci ha dato una lezione, ha fatto uno show di tre ore senza interruzioni".
Lei ha giocato nell’Inter, nella Juve e nel Milan. Ha visto e vissuto il Milan scalcagnato di Giussy Farina e il Milan dorato di Silvio Berlusconi.
"Al Milan arrivai nel 1982 assieme a Canuti e Pasinato, in cambio di Collovati. La squadra era retrocessa per la seconda volta in B, ma la gente mostrava lo stesso un affetto incredibile. L’allenatore, Ilario Castagner, ci diede un gioco spettacolare e tornammo in A, ma i problemi c’erano. Prima giornata, a San Siro contro la Sambenedettese (partita finita peraltro sul 2-2, gol rossoneri di Serena e Verza, ndr). Il sabato ci presentiamo a Milanello per il ritiro e notiamo un trambusto di camion e furgoni. Il mister chiede spiegazioni e gli rispondono che stanno montando le strutture per una festa di matrimonio il giorno dopo. Farina, per fare soldi, affittava Milanello per eventi di ogni genere. Da lì in poi andammo in ritiro a Milano, in un hotel di largo Augusto, in centro. A fine stagione, Farina mi rimandò all’Inter e prese Luther Blissett, il centravanti inglese che a Castagner non piaceva perché attaccava solo la profondità in velocità, con tecnica incerta, e non faceva salire la squadra".

La seconda volta al Milan?
"Tutto diverso, Milanello era diventato un parco fiorito, bellissimo. Tutte le camere rifatte, tutto nuovo ed efficiente. Un settore medico all’avanguardia: Berlusconi aveva mandato il dottor Tavana a seguire per un mese lo staff clinico dei Chicago Bulls, la squadra di basket all’epoca più famosa. Con Capello, il mister, avevo un buon rapporto. Con Adriano Galliani, l’ad, un po’ meno, tanto è vero che anni dopo chiamò in diretta a Controcampo, dove ero ospite di Sandro Piccinini, per contestare con toni arrabbiati una critica che avevo mosso. Disse che non mi avrebbe più fatto entrare a San Siro, ma io rimasi tranquillo e a San Siro entrai come sempre".

Italia 90 è stata la grande porta girevole della sua carriera: il gol contro l’Uruguay, il rigore sbagliato contro l’Argentina in semifinale.
"Mai stato un rigorista. Finiti i supplementari, a Napoli, mi butto per terra e spero che non mi tocchi di andare sul dischetto. Poi Vicini, il ct, mi punta: 'Aldo, mi mancano due tiratori. Te la senti?'. Risposta: 'Mister, faccia un altro giro e nel caso ritorni da me'. Pochi attimi, Vicini si ripresenta, io gli dico di sì ed entro in trance. Mi alzo e sento le gambe dure, di marmo. Provo a respirare lungo, per scacciare l’ansia, ma niente. Quando mi incammino verso il dischetto, la porta diventa sempre più piccola e il portiere (Goycochea, un pararigori, ndr) sempre più grande. Sono ai limiti dell’attacco di panico, ho paura di angolare troppo il tiro e non lo angolo abbastanza, il portiere para. Precipito in un buio totale. Non mi ricordo più nulla delle ore successive, la mia memoria riparte dalla finale per il terzo posto contro l’Inghilterra a Bari".

Ha avuto però il coraggio di tirarlo, il rigore. Altri, inclusi certi fuoriclasse, in circostanze analoghe si sono sottratti.
"Io però li capisco tutti. Se uno non se la sente, se sta male, è meglio che si rifiuti. Da quel giorno non ho più tirato un rigore. Comunque, nell’Intercontinentale del 1985 a Tokyo con la Juve, il rigore l’avevo calciato e trasformato, però lì era stato diverso, sapevo di essere nella lista, mi ero preparato. A Italia 90 in allenamento non avevo provato un rigore".
Tokyo 1985, l’Intercontinentale vinta, la foto indimenticabile di Platini sdraiato dopo un gol annullato.
"Avrei voluto essere come lui, possedere la sua intelligenza e ironia. Sapeva rimproverarti con arguzia. Un giorno, appena arrivato a Torino, mi fa: 'Aldo sei contento di essere qui?'. E io: 'Ma certo. Alle mie spalle ci sei tu che mi metti palloni fantastici. Dalle fasce mi arrivano i cross di Mauro e Cabrini. Che cosa potrei volere di più?'. E lui: 'Lo sai che ti ho voluto io? E lo sai perché? Perché vorrei che tu di testa mi appoggiassi il pallone all’indietro per permettermi di tirare'. Lo dice con il sorriso e io capisco che si tratta di una richiesta, di una critica mascherata bene: 'Ok, Michel, ho capito'. Da quel giorno, appena potevo, di testa cercavo Michel".

Ha giocato con Inter, Juve e Milan: a quale di queste squadre è più legato?
"Sono sempre stato tifoso dell’Inter e in nerazzurro ho vinto lo scudetto dei record con Trapattoni, però l’esperienza alla Juve è stata unica. A Torino ho trovato un ambiente familiare e organizzatissimo allo stesso tempo. C’era una pazzesca cura dei dettagli, ci si parlava per qualunque cosa, anche per un’intervista riuscita male. Alla Juve si migliorava e alla Juve ho lasciato un pezzetto di cuore, anche perché lì ho avuto Gaetano Scirea come compagno e capitano. Venivo dal Toro, mi accolse come un fratello. Era un fuoriclasse dentro e fuori dal campo".

All’Inter, nella Milano da bere degli anni Ottanta: ci racconti delle mitiche feste a casa di Nicola Berti.
"Ero serio e controllato, nella mia vita privata, finché non ho incontrato Nicola, che mi ha insegnato la sana leggerezza. Il calciatore è sottoposto a pressioni enormi e ha bisogno di scaricarle per essere libero di mente in partita. Nella sua casa di piazza Liberty, nel cuore di Milano, Nicola aveva una terrazza con affaccio su corso Vittorio Emanuele e organizzava party aperti, nel senso che le porte erano spalancate e poteva entrare chiunque. Non c’erano soltanto ragazze bellissime. Una sera, in un angolo, trovai seduto lo scrittore Andrea De Carlo, l’autore di Treno di panna, libro che avevo letto. Stava a braccia conserte e osservava la scena".

Estate, 1994: Serena al Mondiale americano come tifoso.
"Io e Shalimov (ex Foggia e Inter, ndr) ospiti nella casa di Nicola Berti e di un suo socio a Soho, New York. Un’abitazione bellissima, terra-cielo, su più piani, residenza che poi venne venduta alla cantante Patti Smith. Anche lì, che viavai. Arrivavano fotografi di moda con le top model del momento (Serena non fa i nomi, ma parliamo d Naomi Campbell, Eva Herzigova, Linda Evangelista, ndr). Nei giorni di riposo, molti azzurri di Sacchi venivano a rilassarsi lì".

E lei fece una gaffe con una figlia di Sacchi.
"Italia-Irlanda, mi siedo in tribuna vicino a due ragazze bionde che mi sembrano americane. L’Italia va in svantaggio e io da tifoso inveisco contro il ct perché voglio che faccia entrare Nicola. Finita e perduta la partita, una delle due mi chiede: 'Scusa, posso passare?'. E io: 'Ah sei italiana!'. E lei: 'Sono Federica Sacchi, la figlia del ct'. Sprofondo in un abisso, ma il socio di Nicola ha un colpo di genio: 'Stasera facciamo una festa nella nostra casa a Soho, perché non venite anche voi?'. Accettano, vengono, ci chiariamo".

Chiudiamo con la sua seconda vita, da commentatore televisivo.
"Estate 1994, mi chiama Ettore Rognoni di Mediaset: 'Bettega (l’allora opinionista calcistico di punta delle tv di Berlusconi, ndr) torna alla Juve come dirigente. Vuoi prendere il suo posto nelle telecronache?'. Accetto e inizio con un’amichevole, Lazio-Ajax. Gara moscia, a causa del caldo, e lo dico subito con forza. Sento una voce in cuffia: 'Meno ventimila telespettatori'. Insisto e mi arriva una nuova frase nelle orecchie: 'Via altri diecimila'. All’intervallo il regista Popi Bonnici mi dice: 'Aldo, sono io quello che ha parlato. Voglio ricordarti che siamo una tv commerciale e che gli ascolti vengono prima di tutto. Racconta quello che vedi, non edulcorare niente, ma fallo con misura, senza esagerare, sennò fai crollare gli ascolti'. Una lezione, da lì in poi sono stato attento ai toni e al linguaggio".
A quante telecronache ha partecipato?
"Non lo so, l’unico dato certo sono le 17 finali di Champions".
I telecronisti con i quali ha lavorato?
"Pardo è un mostro per dialettica e per capacità di trovare informazioni in rete durante la partita. A Sky, dove sono ora, mi impressiona la preparazione, la cura dei dettagli. L’affetto speciale lo provo per Bruno Longhi e Sandro Piccinini, i miei primi compagni di viaggio. Insieme abbiamo condiviso tante avventure".

Il momento più bello della sua vita sportiva?
"L’Olimpiade di Los Angeles nel 1984. Arrivammo quarti, medaglia di cartone, battuti in semifinale dal Brasile e nella finale per il terzo posto dalla Jugoslavia, però l’esperienza nel villaggio olimpico è stata magica, soltanto lì ho trovato l’essenza dello sport".