Sensini: "Eriksson unico, Zola faceva cantare il pallone. E Voeller nella finale di Italia '90 si è buttato"

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L'ex Udinese, Parma e Lazio: "Veron il compagno più forte. Ancelotti miglior tecnico del mondo, occhio al suo Brasile al Mondiale. E Che Guevara è il mio orgoglio"

Andrea Schianchi

Giornalista

16 settembre - 11:06 - MILANO

Da Che Guevara ad Alessandro Calori il passo è molto lungo, eppure nel mondo di Nestor Sensini tutto si tiene, come nelle migliori storie d’avventura, e a tutto viene dato un senso. Vent’anni di calcio giocato, tra Argentina e Italia, poco meno di una ventina da allenatore, e lui che rilegge il passato con la leggerezza di chi sa sopportare gli anni che se ne vanno e che si diradano.

Partiamo da Rosario, la sua città. 

"Non è la mia città, è la città di Ernesto Che Guevara. Per quelli della mia generazione, io sono nato nel 1966, lui è stato un punto di riferimento, un orgoglio. Lottava per le idee, non per il denaro. La sua lezione è viva ancora oggi e questo ne testimonia la bontà e la forza. Noi “rosarini” siamo fatti così: pensiamo al prossimo e non al guadagno. Forse non tutti, ma io sì. Ho una scuola calcio, a Rosario: 400 bambini che vengono a giocare gratuitamente. Lo faccio perché desidero mettere la mia esperienza al servizio della comunità".

Da Che Guevara a Maradona, suo compagno in Nazionale. 

"Lo descrivo con una sola parola: poesia. Lui, in campo, scriveva versi, faceva rime. Nessuno al suo livello, perlomeno per quello che ho visto io. E fuori dal campo un vero leader. Mai una parola contro un compagno, sempre in difesa della squadra".

Lei è sbarcato in Italia, a Udine, nel 1989. Prima impressione? 

"Volevo giocare in Serie A, era il mio obiettivo, ma confesso che Udine non sapevo nemmeno dove fosse. Allora non c’era Internet, non c’era Google Maps. Andai a comprare una cartina dell’Italia e mi resi conto di dove proseguiva la mia avventura. Anni meravigliosi, a Udine, con il patron Pozzo che è stato una specie di secondo padre. Ci sentiamo ancora adesso".

Finale del Mondiale 1990, lei commette fallo in area su Voeller, l’arbitro concede il rigore, Brehme lo trasforma, la Germania è campione del mondo e voi argentini in lacrime. 

"Raccontiamo bene. Il rigore non c’era. Io entrai sul pallone e Voeller si buttò: lo ha ammesso lui stesso, anni dopo. Il guaio fu che l’arbitro Codesal abboccò. Vedere i nostri tifosi disperati, il popolo argentino che piangeva per me è stato terribile. Mi sentivo responsabile, anche se sapevo benissimo di non aver commesso nessun fallo".

Nel 1993 il grande salto: dall’Udinese al Parma dei Tanzi, club in rampa di lancio. 

"Mi ambiento subito e segno a San Siro contro il Milan nella finale di ritorno di Supercoppa Europea. Trionfo. E poi altri ne sono arrivati: due coppe Uefa (1995 e 1999, ndr), due Coppe Italia (1999 e 2002, ndr). Il Parma, all’epoca, era una delle Sette Sorelle. Ve le ricordate? Juve, Inter, Milan, Lazio, Roma, Fiorentina e Parma. Un altro mondo, un altro calcio. Una squadra formidabile, quella del 1999, con Malesani in panchina. C’era il mio amico Veron che, quando il mister ordinava una seduta di tattica sul campo, usciva e andava a fare la doccia. Lui non aveva bisogno di quelle lezioni, era un fenomeno".

Poi vince lo scudetto alla Lazio nel 2000. Che cosa ricorda? 

"Devo ringraziare il mio caro amico Alessandro Calori. Fu suo il gol con il quale il Perugia battè la Juventus, e noi negli spogliatoi attaccati alle radioline perché a Perugia era piovuto e l’inizio della partita era stato ritardato. Adesso che mi viene in mente: devo ancora pagare a Calori la cena che gli aveva promesso. Sono passati venticinque anni, forse è venuto il momento di saldare il debito, che dite?".

Ci racconti quella Lazio. 

"Una squadra pazzesca gestita da un allenatore che, secondo me, era l’unico in grado di tenere insieme quei campioni: Sven Goran Eriksson. Mancini, Mihajlovic, Veron, Nedved, Nesta, Salas, Conceiçao, Boksic... Personalità ingombranti, ma Sven non si scomponeva mai: metteva d’accordo tutti con una semplice parola o con un sorriso".

Lei ha battezzato anche il debutto dell’allenatore Ancelotti in Serie A. Stagione 1996-97. 

"Ricordo che a dicembre eravamo molto in basso, in classifica, e si parlava di esonerare Carletto. Noi giocatori, invece, ci eravamo affezionati a lui. Così, per stemperare un po’ la tensione, decidemmo che, per Natale, gli avremmo regalato un set di valigie. Lui prese il pacco e si mise a ridere... Alla fine del campionato, dopo una rimonta pazzesca, arrivammo secondi. E quel set di valigie, visto il giro del mondo che ha fatto in panchina, gli sarà servito... Io dico: occhio al suo Brasile al prossimo Mondiale, perché lui è il miglior tecnico al mondo e con il suo carattere e la sua esperienza è capace di far diventare la Seleçao una Nazionale davvero super".

I migliori compagni di squadra? 

"In Nazionale, ovviamente, Maradona. Nei club, dico Veron perché aveva una visione di gioco superiore alla media, e Zola perché faceva cantare il pallone ogni volta che lo toccava. E aggiungo Batistuta: potenza e senso del gol".

Oggi, a parte gestire la scuola calcio a Rosario, che cosa fa Sensini? 

"Il nonno. Mia figlia Julieta mi ha regalato la piccola Antonia e io sono diventato matto. Vorrei allenare ancora, dopo le esperienze che ho fatto in Argentina e in Cile, ma sinceramente, quando vedo gli occhi di Antonia e il suo sorriso, mi passa la voglia di rimettermi in viaggio".

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