Questo ragazzo è una... Potenza: "La mia nuova vita dopo il cancro, ora sogno la Top 100"

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Luca, 25 anni, l'anno scorso è stato operato per un tumore alle corde vocali: "Fino a poco prima dell'intervento ho giocato, ora sto bene e in campo sono più libero. Mi sento un po' un supereroe"

Jacopo Gerna

Giornalista

13 ottobre 2025 (modifica alle 19:24) - MILANO

Sono poco più che bambini. Eppure, che siano predestinati o semplicemente un pochino portati per il tennis, sono firmati dalla fascetta sulla fronte alle stringhe delle scarpe. Con genitori che, convinti di avere in casa un figlio con il braccio di Alcaraz e la testa di Sinner, caricano contenuti social a volte persino ridicoli. Eppoi esistono genitori che mettono in campo i figli solo per non lasciarli sul divano a mangiare merendine. Basta che crescano sereni, si muovano e si divertano. Salvo poi spaccarsi la schiena per aiutarli a inseguire il proprio sogno. Luca Potenza e la sua famiglia (padre, madre e tre fratelli), fanno parte del secondo gruppo. La storia di questo ragazzo siciliano, classe 2000, porta all’estremo concetti che alimentano il romanzo dello sport. Gioie, botte di adrenalina, amicizie granitiche. Ma anche e soprattutto difficoltà e sofferenze. Mentali, nel caso di Potenza soprattutto fisiche. Poco più di un anno fa, l’8 agosto 2024, l’attuale numero 359 al mondo era in una sala operatoria per l’asportazione di un tumore maligno alla corda vocale sinistra. “C’era una non trascurabile fetta di rischio, anche se non ho mai voluto sapere la percentuale”.

Luca, come mai fino a oggi non hai reso pubblico il tuo calvario? 

"Non volevo e non voglio la compassione di nessuno, men che meno di gente con cui non mi interessa condividere nulla. Ora ho cambiato idea: mi piacerebbe che la mia vicenda fosse di ispirazione per tanti pazienti oncologici che stanno perdendo la voglia di lottare". 

Com’è nato il tuo amore per il tennis? 

"Nella Licata dei primi anni 2000 le opportunità per fare sport non erano moltissime. Mio fratello maggiore giocava a calcio e mi aggregai a lui. Mi piaceva un sacco ed ero pure bravino. Già mi immaginavo calciatore. Ma l’ambiente e un certo sottobosco non piacevano a mio padre, che ci disse ‘voi qui non mettete più piede’. Quante lacrime….Poi un giorno la tv si fermò su una partita di tennis, al mio paese c’era un circolo (il Tc Licata) e papà disse a mio fratello di provare”. 

E? 

"Avevo due possibilità. Seguire lui al campo o starmene in casa a sfondare il divano. Così provai, ma non fu per niente amore a prima vista. Anzi, mi mancava il pallone. Poi col tempo mi sono fatto andar bene racchetta e palline, anche perché sono sempre stato molto competitivo e le cose mi venivano bene. Costruii un bel rapporto col mio primo maestro, Francesco Pedani, e piano piano cominciai a fare i primi tornei”. 

In Sicilia, non esattamente il contesto logisticamente ideale per andare in giro a caccia di punti e fare esperienza. 

"Livello dei coetanei non altissimo e pochissimi tornei giovanili. Avrei dovuto iniziare a spostarmi, ma con una famiglia normalissima alle spalle come facevo? Il tennis costa, l'unico stipendio in casa era quello di papà, un operaio edile che si spaccava la schiena in cantiere per mantenerci. Una volta, ero Under 12, mi iscrisse a un torneo Under 14 a 220 km da casa. Avrà pensato che dopo una o due partite sarei andato a casa. Solo che arrivai in finale…Ogni volta 440 km, pregando il giudice arbitro di farmi giocare dopo le 8 di sera perché papà finiva in cantiere alle 6. Quella settimana lì abbiamo finito di fondere il motore della macchina. Nel frattempo, per mettere via due soldi, iniziai anche coi tornei Open. Giocavo con gli adulti, ricordo un 6-0 6-0 che presi da un 50enne che non tirò nemmeno un vincente. La pazienza, in campo e nella vita, non è mai stata il mio forte”. 

Insomma, a un certo punto bisognava salutare la Sicilia. 

"Per forza. Feci il liceo a Catania, ma in quel periodo mi pesavano un po’ i sacrifici che devi fare già da ragazzino. Avrei voluto andare alle feste, al cinema, fare la vita di un liceale normale. E’ cambiato tutto quando a 17 anni sono andato a Roma”. 

Il fattore chiave? 

"Volevo provare a diventare un giocatore vero e allo stesso tempo iniziare a girare per il tennis mi faceva sentire uomo. Non che volessi allontanarmi dalla mia famiglia, anzi. Ma organizzarsi la vita, incordare le racchette, prepararsi i pasti e i vestiti sono cose che ti fanno crescere". 

Come facevi a far quadrare i conti senza gravare sulla tua famiglia? 

"La gente vede i premi milionari degli Slam e dei 1000 e pensa che sia tutto oro quello che luccica. Ma se vuoi fare le cose per bene e sei sotto il numero 150 in classifica, è molto facile rimetterci dei soldi, altro che fare pari. Vai in giro per un Itf da 15.000 dollari, se lo vinci sono 1.300. Se passi il primo turno un centinaio scarso, se esci nelle qualificazioni oltre alle spese ordinarie hai perso i soldi del volo e dell’alloggio. Mi aiutavano i soldi vinti ai tornei Open, ma quando ero in giro da solo in posti particolari, già trovare la verdura pulita che ti evitasse intossicazioni spesso era un casino". 

Quando stavi ingranando è arrivato il Covid. 

"E io non ero nemmeno nella lista speciale degli atleti autorizzati ad allenarsi. Ho fatto tre giorni in casa ad allenarmi a corpo libero, poi rischiavo di impazzire. Però alla ripresa, settembre 2020, ho vinto il mio primo 15mila. Ricordo ancora la premiazione a Monastir con la mascherina”. 

Il 2023 è un anno fondamentale per la tua carriera. 

"Un match a Segovia è stato la prima sliding door. Stavo giocando le qualificazioni. Coach Fabio Chiappini era lì con Mattia Bellucci. Si mise a vedere un mio match e mi diede un grande supporto morale. Così, senza secondi fini. Mi venne naturale appoggiarmi a lui, che conosce questo sport come pochi. Successivamente, mi disse di venire a Milano ad allenarmi con lui e di entrare nel progetto tecnico di Mxp. ‘Fabio, non me lo posso permettere’. ‘Tu fai la borsa e vieni subito al Quanta Club di Milano, poi il modo lo troviamo’. Non potete immaginare la carica che mi diede. Un coach del suo livello che credeva in me e nel mio tennis. Lavorare con lui e mi ha cambiato la vita”. 

Come? 

"Tecnicamente non ho modificato poi molto. Sono migliorato fisicamente e tatticamente. Giocavo troppo difficile per il mio livello. Chiappini mi ha dato solidità, mi ha fatto tagliare i rami secchi del mio gioco. Dovevo dare concretezza al mio essere estroso, imparare a rispettare le regole tattiche e tecniche dei match”. 

Punti di forza? 

"Il rovescio è il colpo più naturale, il dritto è un po’ più costruito ma sto imparando a fidarmi anche di questo fondamentale. Mi piace essere aggressivo, variare i colpi e muovere l‘avversario anche con le smorzate. Mi trovo bene coi grandi battitori perché rispondo bene e se poi entriamo nel punto li frego, invece soffro i regolaristi”. 

Ma sul più bello, la voce sparisce. 

"Fine febbraio 2024. Atterro a Tunisi per giocare a Monastir, la mecca degli Itf. Chiamo la mia famiglia e vado a letto. La mattina mi sveglio completamente afono”. 

Ho preso freddo, avrai pensato. 

"Pensavo solo a giocare. In quel periodo prendevo qualche caramella e stop. Anche perché dal punto di vista fisico stavo benissimo, i sintomi non erano impattanti sulla prestazione. Solo che ogni tanto, poi sempre più spesso, andava via la voce”. 

Fino all’8 luglio 2024. 

"Mio padre a giugno mi prenota una visita al Niguarda, a mia insaputa perché io rinviavo sempre. Subito i dottori si rendono conto che qualcosa non va. E quel maledetto 8 luglio la biopsia conferma un tumore maligno alla corda vocale sinistra. Esplosi in un pianto a dirotto e dissi a Mauro Arnone, molto più di un coach per me, di parlare con mio padre. Io non ce la potevo fare, mi era crollato il mondo addosso. Gli straordinari medici del Niguarda, Francesco Pilolli e il primario di otorinolaringoiatria Alberto Dragonetti, mi consigliano l’operazione, nonostante i rischi. ‘Leviamo tutto, è la cosa migliore’. In attesa dell’intervento vinco pure due tornei open, mi sembra tutto normale”. 

Rimozione del problema? 

"Non saprei. Ma la sera prima dell’intervento, il 7 agosto, sono crollato. Passai una notte di inferno, piena di domande inquietanti. Di pianti e di terrore vero. La paura arrivò tutta assieme, non sapevo se sarei uscito vivo da quella sala operatoria”. 

Ne sei uscito alla grande. 

"Intervento riuscito, non ho nemmeno dovuto fare quella chemio che avrebbe devastato il mio fisico da atleta. Ora ho solo una corda vocale, mi mette un po’ a disagio parlare in pubblico ma i medici dicono che la mia voce è molto meglio del previsto”. 

Ora che succede? 

"Controlli periodici ogni 3 mesi, col rischio di dover fare la chemio perché non sono più operabile. Finora tutto ok, anche se i primi tempi sono stati duri. Non riuscivo a mangiare, sputavo tutto quello che bevevo. Giorni brutti. Dovevo tornare sul campo da tennis in uno-due mesi, dopo 18 giorni mi allenavo. Essere un atleta mi ha aiutato". 

Oltre ad avere accanto affetti sinceri. 

"Da solo non ce l’avrei fatta, non è retorica. La mia famiglia, quella di Mxp con Chiappini, Marco Brigo, Erik e Federica. Amiche speciali come Anna e Martina. Le famiglie Ferrari, Scionti e Careddu, oltre a Riccardo Perin, Imma Battaglia, Cataldo e il tennis team Vianello di Roma. Ora vorrei ricambiare quanto ricevuto. Tanta gente muore prima che il tumore abbia concluso la sua maledetta opera. Perché perdono gli stimoli, la voglia di lottare. Magari non sono soli, ma è complesso stare vicino a un paziente oncologico. Oltre al tennis voglio dedicarmi a questo”. 

Già, il tennis. Il ritorno all’agonismo com’è andato? 

"Persi la prima partita, ma piansi di gioia come se avessi vinto Wimbledon. E’ andato quasi tutto bene. L’episodio più sgradevole? Torneo challenger in Portogallo. Faccio un bel punto e mi carico col "come on" d'ordinanza. Il mio avversario, un portoghese che non voglio citare, mi prende in giro per la mia voce. Penso e spero che non conoscesse la mia vicenda, altrimenti sarebbe proprio un miserabile”.

Come hai gestito quel momento? 

"Macché gestito, mi son venuti tre attacchi di panico in pochissimo tempo. Ho chiamato il medico e in qualche modo ho finito il match, perdendo. Ricordo ancora le parole di coach Paolo Moretti: 'Tu sei un guerriero, questo è niente per te'”. 

Com’è cambiato il tuo essere giocatore? 

"Ho appena raggiunto il mio best ranking perché da un lato mi sento un sopravvissuto, dall’altro un supereroe scampato alla morte. Quindi sono più libero mentalmente, mi faccio meno problemi. Non mi entra una prima manco a piangere? Non sento il dritto?. Capirai, cosa vuoi che sia. A volte parlo con bambini tennisti tristi, spenti. Cerco di fargli capire quanto sono fortunati a praticare questo sport. Sai quanti talenti ci saranno in giro che non hanno nemmeno i soldi per iniziare?” 

Essere sereni non vuol dire non avere obiettivi. 

"Chiappini e il suo staff mi dicono che ho grossi margini di miglioramento. Ora l’obiettivo è arrivare a giocare uno slam, ovviamente partendo dalle qualificazioni. Il sogno è la Top 100: fidatevi, dopo quello che ho passato, ci credo sul serio".

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