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Dal dominio del fuoriclasse sloveno alla resilienza del belga, la storia si ripete. E insegna che la grandezza può nascere anche nell’ombra dei giganti
Paolo Marabini
14 ottobre - 08:52 - MILANO
è successo anche ad altri. E non solo nel ciclismo. Nasci enfant prodige, ti tramuti quasi subito in fenomeno, finanche destinato a scrivere la storia del tuo sport, poi la tua strada si incrocia sul più bello con quella di un avversario che è ancora più fenomeno di te. E che ti lascia giusto una gioia una tantum, facendoti rimpiangere di essere nato nella stessa epoca. L’ultimo caso porta i nomi di Tadej Pogacar e Remco Evenepoel, i mattatori del ciclismo di oggi, che nelle ultime tre occasioni — una più prestigiosa dell’altra: Mondiale, Europeo e Lombardia — hanno occupato le prime due posizioni. Ma sempre con lo stesso ordine d’arrivo: (nettamente) primo il nuovo despota Pogacar e secondo Evenepoel, che è pur sempre il campione olimpico, il miglior specialista al mondo della cronometro e il re di due Liegi-Bastogne-Liegi. Il pensiero, per restare nello stesso sport, va subito a Eddy Merckx e Felice Gimondi, con il bergamasco che dopo i trionfi precoci — Tour de France ’65 e Parigi-Roubaix ’66 in primis — fu costretto a ingoiare molti bocconi amari per mano del Cannibale.