Law, il Re che parlava la lingua degli dei. E quell'anno in Italia tra sole, catenacci e incidenti

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Per il calcio britannico "The King" è stato un’icona, in Italia l'abbiamo visto solo una stagione...

Furio Zara

18 gennaio - 02:40 - MILANO

Il talento vissuto come un dono, la naturale attitudine a cercare la bellezza in ogni gesto. E poi quell’eleganza spettinata che avevano i campioni della sua generazione, che hanno attraversato gli anni 60 celebrando la fantasia al potere. Se n’è andato Denis Law, aveva 84 anni. Per il calcio britannico è stato un’icona, in Italia abbiamo avuto il piacere di vederlo solo per un anno: 1961-62, al Torino. Lo chiamavano The King, perché quello è stato: un re senza corona, scortato semplicemente dalla sua passione per il calcio. Scozzese di Aberdeen, aveva con il pallone un rapporto di amorevoli sensi. I suoi dribbling, ora elettrici e ora armoniosi, sono rimasti fissati a lungo nella memoria collettiva. Ovunque, non solo in Gran Bretagna. Basti qui dire che un altro fuoriclasse, l’olandese Dennis Bergkamp, si chiama così in suo onore. Suo padre rimase incantato dalle prodezze di Law, quindi - con il pargolo appena nato - uscì di casa, andò all’anagrafe e lo chiamò Dennis, aggiungendo una "s" per non confonderlo con la pronuncia con il femminile Denise. 

bacheca

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Nella bacheca di Law brilla più di altri trofei il Pallone d’Oro, conquistato nel 1964 (unico giocatore scozzese a riuscirci, poiché quello che considerava il suo erede, Danny Dalglish, anni dopo arrivò soltanto 2°), staccando due spagnoli: Luisito Suarez, all’epoca in forza all’Inter, e Amancio del Real Madrid. Ha giocato nelle due squadre di Manchester in una città di casette a schiera, ciminiere e cieli bassi. City ad inizio e fine carriera, United negli anni più splendenti, culminati con la conquista di una Coppa d’Inghilterra (1963), due Charity Shield (1965, 1967), due titoli nazionali (1965, 1967) e - soprattutto - della Coppa dei Campioni vinta in un anno fatidico, il 1969, nella favolosa squadra che comprendeva altri due miti, Bobby Charlton e George Best: insieme formarono un trio leggendario, per la gioia dell’allenatore, Matt Busby, e del popolo dei Red Devils. A proposito, si racconta che Busby prima delle partite, prendesse da parte i tre campioni e dicesse loro: “Andate in campo e fateli a pezzi”.

L'attaccante scozzese Denis Law calcia un pallone dopo aver ricevuto una laurea d'onore nel 2005 alla St Andrews University. Ap

talento

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 Best lo stimava molto, ne riconosceva il talento vivido, speciale. Diceva di Law: “Io e Denis parliamo la stessa lingua”. Una lingua fatta di dribbling, invenzioni fuori catalogo, poesia da declamare ogni volta che il pallone finiva tra i loro piedi. Lo scozzese è stato un numero 10 con il passo della mezzala, un centravanti mascherato, capace di mettere a referto in tutta la sua carriera - cominciata nel 1956 nell’Huddersfield Town e chiusa nel 1974 nel City - più di 330 gol ufficiali, 30 dei quali con la maglia della Scozia (record per la Tartan Army alla pari di Dalglish), indossata per sedici lunghi anni. Nell’edizione della Coppa dei Campioni del 1969 chiuse con la doppia soddisfazione: oltre alla coppa, vinse anche - con 9 reti - il titolo di capocannoniere. Ma il gol che è entrato nella storia, quella sua personale e quella della città di Manchester, Law lo segnò il 27 aprile del 1974, nell’ultimo anno di carriera. Era tornato - dopo i favolosi anni con i rossi - al City. E in un derby a Old Trafford segnò il gol della vittoria, lo segnò di tacco condannando - la beffa del destino - lo United alla retrocessione in Second Division.

l'intuizione granata

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 Approdò in Italia nel 1961, a soli ventuno anni. Il Torino lo comprò dal Manchester City, insieme al compagno di squadra Baker. L’intuizione la ebbe il grande Gigi Peronace, che colse nel ragazzo la scintilla del fuoriclasse e lo soffiò all’Inter, che per prima l’aveva opzionato. Il club granata lo pagò 110.000 sterline. Un bell’investimento, ripagato in parte: 27 presenze in campionato, 10 reti, ma anche tante pause. A ripercorrere il film della sua stagione in Serie A, viene da dire che è stata una grande occasione mancata. Tante le incomprensioni. Law non capì l’Italia, non si mise di impegno. Non si ambientò. E dire che aveva cominciato bene il campionato, tanto da impressionare l’Avvocato Agnelli che lo “prenotò” per la Juventus. Poi però si eclissò. Una volta, anni dopo, raccontò che del nostro paese amava tutto. La gente, il cibo, le giornate di sole. Tutto ma non il football. “It was far too defensive”. Chiaro, troppo difensivo. Erano quelli - va detto - gli anni del catenaccio, delle difese blindatissime, degli stopper che seguivano il centravanti avversario fin dentro gli spogliatoi. A penalizzarlo fu anche un drammatico incidente, che avrebbe potuto avere conseguenze mortali.

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ospedale

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 Una sera era in macchina, un’Alfa Romeo, insieme a Baker: c’era costui al volante e ad un incrocio imboccò la strada in senso contrario a quello di marcia, quando capì l’errore cercò di rimediare con una manovra improvvida e spericolata, ma l’auto si ribaltò e i due calciatori finirono in ospedale. Non legò nemmeno con i compagni, men che meno con l’allenatore, Benjamin Santos. La leggenda vuole che - durante una partita con il Napoli - fosse stato proprio Santos a sollecitare l’espulsione di Law, chiedendola a gran voce all’arbitro, che infine eseguì. Santos era imbufalito perché Law non aveva seguito le sue indicazioni tattiche. Leggenda, certo. Quando se ne andò dall’Italia, tornato in patria, tornò a brillare di luce propria. Nel 1962 si sposò con Diana, la compagna di tutta una vita, che gli ha dato cinque figli. Dopo il ritiro Denis Law ha lavorato a lungo come opinionista. Di lui resta il ricordo di un campione sorridente, con i capelli biondi al vento, l’aria strafottente di chi - in quegli anni - poteva permettersi di fare, con il pallone, una piccola grande rivoluzione.

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