Vent’anni fa, segnando con un piazzato dalla traiettoria impossibile, il numero 21 rossonero entrò nel gotha degli specialisti insieme ai più grandi, da Pelé a Messi, da Platini a Baggio e CR7
Quella sera, la parabola innescata dal calcio di punizione di Andrea Pirlo alzò il proprio respiro, fluttuò con un colpo d’ali improvviso, di quelli che danno gli uccelli quando indovinano vie di fuga tra le nuvole; quindi si abbassò con inattesa rapidità, vibrando come un coltello impugnato con la volontà di ferire e infine finendo alle spalle del portiere avversario, Antonio Chimenti, soprannominato Zucchina per via della testa pelata. Il teatro del citato capolavoro, che il telecronista di Sky, Fabio Caressa, battezzò in quel momento “La Maledetta”, era San Siro, la partita era Juve-Milan, Pirlo segnò il 3-0, arrivando al punteggio finale dopo i gol di Seedorf e Kakà. Succedeva il 29 ottobre 2005, vent’anni fa.
JUNINHO ISPIRA
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Pirlo raccontò poi che aveva studiato uno specialista del genere, il brasiliano Juninho Pernambucano, all’epoca in forza al Lione. E poiché la poesia in qualche modo, quando risulta ridondante, va destrutturata con ironia, ecco che nella sua autobiografia, Penso quindi gioco, il non ancora campione del mondo scrisse che aveva “fatto esperimenti per settimane, ma l’ispirazione giusta è arrivata mentre cagavo (…). Il giorno dopo sono andato prestissimo a Milanello e, senza togliere nemmeno i mocassini, ho cominciato a provare. Fu subito un tiro perfetto, all’angolino. Finalmente avevo battuto il fantasma di Juninho”. E in fondo l’arte di calciare le punizioni, nel succedersi delle stagioni di fantasmi ne rievoca parecchi.
diego da sei metri
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La magia del calcio di punizione risiede nel fatto che, davanti a chi calcia, ci sia una barriera, un ostacolo che si mette in mezzo tra l’intenzione e il suo compimento, un problema che si deve risolvere con fantasia e coraggio, ma più di tutto con quella qualità che tendiamo spesso a sottovalutare: la precisione. La punizione più celebre di Maradona - quella col grandangolo, dentro l’area contro la Juve al San Paolo, quando nel 1985 si prese beffa della fisica - era a due ed Eraldo Pecci, cui spettava il compito di passargli il pallone, lo avvisò: “Diego, il pallone non passa da nessuna parte”. C’erano sei juventini in barriera, che distava da Diego non più di sei metri. In due si staccarono prima del fischio, togliendogli ancora orizzonte. E niente, Maradona volle fare di testa sua. Regalandoci la punizione impossibile.
DA SINISA A DYBALA
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Di possibilità, in verità, ce ne sono infinite. In Serie A oggi si aggirano un paio di specialisti da top-class. Uno è sicuramente Hakan Calhanoglu, capace di unire nel gesto potenza e precisione, come ha dimostrato prima con il Milan e poi con l’Inter; l’altro è Paulo Dybala, piede velenoso e letale, che rientra nella categoria dei mancini che hanno celebrato l’arte della punizione nella storia del calcio. Con quel piede calciavano: Daniel Passarella (sberle portentose a occhi chiusi); Sinisa Mihajlovic che ne segnò addirittura tre in una sola partita, un Lazio-Sampdoria d’antan; il brasiliano ex Genoa, Branco, che calciava con le “tre dita” del piede sinistro, imprimendo al pallone quell’effetto straordinario che poi abbiamo visto replicare da Roberto Carlos, il più supersonico degli specialisti. La sua punizione-satellitare calciata nel 1997, durante Francia-Brasile, continua ancora oggi a sterzare all’improvviso e provoca la stessa indicibile meraviglia. E se Pirlo copiava Juninho, Roberto Carlos si ispirava al grande Rivelino, micidiale esecutore di tiri piazzati dalla distanza. La sua punizione contro la Cecoslovacchia nel 1970 venne battezzata Patada Atomica. Di potenza calciavano Agostino Di Bartolomei, Rambo Koeman che con una staffilata regalò la Coppa Campioni 1992 al Barça; e Roberto Dinamite, che a ogni tiro pareva di sentire il “boom”.
LA “FOGLIA” DI CORSO
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Il segreto della punizione perfetta sta in un algoritmo che contempla distanza, potenza, traiettoria, gravità e resistenza dell’aria del pallone. Poi, certo, bisogna avere un piede che canta, come quello di Mariolino Corso, che negli Anni 60 fece coniare la felice definizione di punizione a “foglia morta”. Trattasi di parabola lenta, dolce e definitiva, quasi uno sberleffo. Il primo a calciare così - a effetto, superando la barriera - era stato il brasiliano Didì, quello del ritornello Didì-Vavà-Pelé. In Italia abbiamo avuto Roby Baggio (che al campetto di Caldogno copiava l’idolo Zico), più tardi Gianfranco Zola, sembrava che il pallone se ne andasse dal suo piede dopo un bacio, quindi Alessandro Del Piero e Francesco Totti: lo juventino calciava con effetto a rientrare, il 10 della Roma preferiva la botta secca e angolata. Un maestro è stato Miralem Pjanic, così come Alvaro Recoba. Calciavano divinamente le punizioni anche David Beckham, che seguiva la traiettoria inarcando la schiena, e Ronaldinho, che ballava prima del tiro. Negli ultimi vent’anni a illuminare la scena ci hanno pensato i due re del calcio moderno, Messi e CR7. Quest’ultimo è uso mettersi perpendicolare al pallone, sembra un toro che sbuffa prima di incornare, le gambe aperte, la rincorsa è medio-lunga, il tiro è effettuato con l’interno collo del piede, spesso dritto per dritto.
MA IL RE È LEGROTAGLIE
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Hanno fatto epoca le punizioni a giro di Michel Platini, destinate a entrare nell’immaginario collettivo, così come quelle del già citato Zico, che incantava il Maracanà e, appena arrivò in Serie A, all’Udinese, diventò lo spauracchio dei portieri e la gioia del pubblico, a prescindere dalla fede. Una domenica, a Catania, prese la rincorsa accompagnato dall’ovazione dei tifosi di casa: gol e fu tripudio. Oggi a guidare la classifica degli specialisti c’è Juninho Pernambucano, cui sono state attribuite 77 reti su punizione. Ma la leggenda appartiene a un argentino poco conosciuto, tale Victor Antonio Legrotaglie. Si dice che segnasse una punizione ogni due. Lo chiamavano El Maestro, giocò tutta la vita con il Gimnasia Y Esgrima di Mendoza e si dice che persino Pelé, un altro che di punizioni divine se ne intendeva, l’avrebbe voluto con sé ai Cosmos.










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