L'attuale tecnico del Como a 16 anni stava per accettare la proposta di Ausilio, poi scelte l'Arsenal. Ha fatto una gran carriera da calciatore, e ha imparato da Wenger, Pep e Conte l'arte di allenare
Non sarebbe la prima volta di quei due, Piero e Francesc, seduti amabilmente allo stesso tavolo a parlare di futuro e centrocampo, soldi e contratti. Era una vita fa, lontano 2003, e il 31enne capo del vivaio interista Piero Ausilio era a tanto così dal mettere un foglio e una penna in mano al 16enne Francesc Fabregas, chiamato in famiglia solo Cesc come da tradizione catalana. Questione di dettagli, sensazioni striscianti, l’affare sembrava davvero vicino, poi alla fine il gioiellino della cantera dorata del Barça, assieme ai genitori, preferì Londra a Milano. Firmò per l’Arsenal di Arsène Wenger: il tecnico francese sarebbe diventato un papà per Cesc, il primo di tanti, in una carriera enorme vissuta sempre con il vento in faccia. È la stessa brezza che soffiava già a Arenys de Mar, il suo paesino da visitare sulla costa a nord di Barcellona: lì si mangiano ottimi gamberi e la gente è abituata ad andare per mare. Viaggiare e scoprire. Magari tornare perché il destino fa giri immensi, ma spesso rientra alla casella di partenza: 22 anni dopo Fabregas si potrebbe risedere allo stesso tavolo nerazzurro. Ausilio è direttore sportivo nel team diretto dal presidente Beppe Marotta ed entrambi in questi tempi guardano con curiosità a Como, giusto 19 chilometri da Appiano, dove Cesc ha ripiantato le radici. Ne sono nati frutti rigogliosi e pare solo l’inizio.
il filo...
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Non è l’unica scelta dei dirigenti dell’Inter, tutto è comunque condizionato alla decisione di Inzaghi: se Simone avesse ancora la stessa voglia, non annacquata nel naufragio di Monaco, e volesse accettare le condizioni di rinnovo del club nerazzurro, allora Fabregas resterebbe a predicare sul Lago. In caso di rottura nell’incontro di oggi, allora sì che il tecnico catalano potrebbe ripiombare sulla scena del 2003: essere “liberato” da questo potentissimo Como non è esattamente una passeggiata di salute, ma in questa storia sembra esserci un filo teso che resiste negli anni. In Cesc, poi, la simbologia conta: ad Arenys da bambino andava in giro con una maglia blaugrana con il numero 4 in onore del suo idolo, Pep Guardiola, e sapeva che prima o poi avrebbe esaudito il sogno di dividere lo spogliatoio con lui. Era nella mitologica classe dell’87 della Masia, la stessa di Messi e Piqué, ma per emergere è dovuto andare nel nord di Londra, dove è stato istruito a fornire assist a Titì Henry, non un brutto mestiere. Era titolare ragazzino sul campo e universitario fuori, alla facoltà di Economia. Le gioie più grandi le avrebbe avute dopo, con una maglia rossa addosso, ma non quella del club: sarebbe diventato campione di tutto con la Spagna tra 2008 e 2012. La chicca, però, è l’assist a Iniesta per il gol del Mondiale in Sudafrica: quando si dice, una vita in un passaggio. L’anno successivo, il suo amato Barcellona lo ricomprò su richiesta di Guardiola, la perfetta chiusura del cerchio. La frequentazione col mito è durata un anno appena, ma certi insegnamenti valgono per sempre.
... e la pizza
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Tornato a Londra, sponda Chelsea, Fabregas avrebbe poi incontrato nuovi maestri e di tutti annotava i metodi di lavoro: negli anni i quaderni sono cresciuti, pare che li conservi ancora tutti. Il contatto con Conte è stato stordente, nello stile ruvido di Antonio, ma assai fruttuoso: Cesc non aveva più la freschezza per reggere i ritmi, però l’identità catalana e “wengeriana” è stata definitivamente contaminata. Si sono innestati allenamenti da marines, tattica, ossessione per i dettagli, la sconfitta è diventata il più nero dei lutti. Giusto il tempo di una breve frequentazione con Sarri in Blues e poi l’uomo di mare ha ripreso la navigazione, via a Monaco e da lì l’attracco sul Lago di Como: gli ultimi fuochi in campo sono serviti a plasmare la carriera da allenatore. La conversione è stata naturale, mentre lo stile è in via di definizione, cangiante come il vento che soffia sempre su quel pezzo di Catalogna. Piacerebbe anche ai californiani cosmopoliti di Oaktree: padroneggia le lingue - l’inglese lo ha imparato già da bambino leggendo Harry Potter - e ha i modi gentili della buona borghesia catalana. Ora perde le staffe in panchina, si agita con passione vagamente inzaghiana, ma niente di più. Da stellina dell’Arsenal, dopo una sfida infuocata allo United, vide negli spogliatoi muso contro muso Sol Campbell, Rio Ferdinand e Martin Keown, non tre Lord del Regno: il 17enne catalano pensò di partecipare alla rissa lanciando il trancio di pizza che aveva in mano. Finì in testa a Ferguson, quel giorno prese appunti su cosa non fare. © RIPRODUZIONE RISERVATA