Gigi Martini: "La morte di Re Cecconi? La verità è un'altra... In aereo ho fregato un falso mafioso"

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Prima difensore dello Lazio campione nel 1974, poi pilota Alitalia: "Luciano non avrebbe mai detto 'Questa è una rapina'. Non ci credo. Arrivai in ospedale che era appena morto. Leggendo gli atti, si trattava di un colpo accidentale"

Furio Zara

Collaboratore

18 settembre - 08:07 - MILANO

In questa storia si racconta di un uomo che ha avuto la fortuna di vivere più vite di quelle che ha sognato, mentre attorno saettavano palloni, stridevano i tackle e rimbombavano gli spari, e nel cielo un aereo cercava la sua traccia tra le nuvole, così come un terzino corre affiancando la linea bianca che delimita il campo, che basta un attimo per scivolare, o prendere il volo. 

Gigi Martini, come è diventato calciatore? "Avevo sette-otto anni, vivevo a Capannori, un comune limitrofo a Lucca. Nei due chilometri di tragitto casa-scuola, con un pallone sgonfio, giocavo partite immaginarie e quando arrivavo nella piazza, ad accogliermi c’era — affacciato alla finestra — il sarto del paese, un tipo strambo, che parlava da solo, immaginando che davanti a lui ci fossero centinaia di persone, invece c’ero soltanto io. Mi incitava e applaudiva: “Dai Luigino! Dai Luigino!”. Avevo una passione che mi divorava. Ho cominciato a giocare con la Lucchese, in quarta serie. Nel 1971, a ventidue anni, sono arrivato alla Lazio".

Otto anni in una squadra bella e dannata, lo scudetto del 1974 a fissarvi - tutti - nella leggenda. 

"Eravamo forti e fragili, uniti e divisi. Immortali. E maledetti. Tanti amici se ne sono andati giovani, prima del tempo. Di noi dicevano: Lazio squadra di fascisti. La Digos ci avvertì: le Brigate Rosse stanno progettando un attentato contro di voi. Avevamo il porto d’armi, giravamo con le pistole, Petrelli sparava ai lampioni, io andavo tre volte alla settimana al poligono. Ci allenavamo in due spogliatoi diversi. Da una parte Chinaglia, Wilson, Pulici, Nanni, Oddi; dall’altra io, Re Cecconi, Frustalupi, Petrelli. D’Amico era un ragazzino, Garlaschelli stava per i fatti suoi. Ci guardavamo di sbieco, nelle partitelle ci si menava senza pietà. A vigilare su tutti la persona più bella che ho conosciuto: Tommaso Maestrelli".

Chi era Maestrelli? 

"Un uomo immenso e buono, lo definirei un comunicatore evangelico. L’immagine che porto nel cuore è la domenica dello scudetto, quando vincemmo all’Olimpico contro il Foggia. Vedo Maestrelli che si porta le mani ai capelli e piange, piange tutte le lacrime che ci sono state e quelle che verranno".

E Chinaglia? 

"Giorgio voleva solo “fare gò”, come diceva lui. Era un ragazzo d’oro, ma incazzoso. Ha combattuto tutta la vita con i demoni che aveva dentro".

Lei era il miglior amico di Luciano Re Cecconi, ucciso a soli ventinove anni da un colpo di pistola il 18 gennaio 1977 in una gioielleria di Roma. 

"Luciano ancora oggi è l’ombra che mi cammina accanto. Lo convinsi a lanciarsi con il paracadute. Mi diceva: Gigi, e se cadendo ci spacchiamo le gambe? E subito dopo eravamo in volo, insieme. Sono arrivato in ospedale pochi minuti dopo che era morto, il medico mi prese il dito e lo accompagnò sul rene di Luciano, dove si era fermato il proiettile. Non credo all’ipotesi dello scherzo, non esiste. Ho letto gli atti, nessun testimone l’ha sentito pronunciare la frase: “Fermi tutti questa è una rapina”. Luciano non l’avrebbe mai detto. Sono convinto che sia partito un colpo accidentale. Il gioielliere aveva paura, era stato rapinato più volte. Impugnava una pistola 7.65 con il cane sensibilizzato, prima ha puntato l’arma su Ghedin e poi, spostandola appena, ha sparato. Basta un niente, basta sfiorare il grilletto".

A nemmeno trent’anni anni lei abbandonò il calcio e cominciò la sua seconda vita. 

"Mi chiamò Liedholm, che allenava la Roma: “Vieni, ho bisogno di un terzino come te”. Lo ringraziai, ma non ne avevo più. Andai un anno in America, prima Chicago e poi Toronto, fu un’esperienza umanamente bellissima, ma lì non hanno storia, tradizione, passione. Smisi perché cominciai a fare il pilota per Alitalia, avevo cominciato a studiare nel 1975. Sono rimasto in Alitalia ventinove anni, sono circa 26.000 le ore di volo fatte, 26.250 per essere precisi gli atterraggi".

Il momento più complicato?

"Il giorno dopo la strage di Ustica, facevo la stessa tratta. Sentii un colpo sordo, era un aereo non segnalato che aveva abbattuto la barriera del suono. C’era in corso una battaglia nei cieli, come poi è stato dimostrato erano prove di guerra". 

Il più divertente? 

"Tratta Palermo-Roma, l’assistente mi dice che c’è un signore che mi vuole parlare. Penso sia un tifoso, invece il tipo si avvicina, ha le mani in tasca, mi lascia intendere che ha una pistola e mi dice che è un capomafia e devo dirottare l’aereo a Ciampino. Penso a uno scherzo, ma quello è serio. Senza che se ne accorga, avviso la torre di controllo che mi stanno minacciando e fingo di andare a Ciampino, ma atterro a Fiumicino. Sulla pista ad aspettarci ci sono quelli della Digos, travestiti con le tute dell’Alitalia. Gli saltano addosso e lo immobilizzano. Lui urlava: “Comandante, mi ha fregato!”. Poi abbiamo scoperto che non era un capomafia, ma un balordo. Mi disse: “Abito a Frascati, per questo volevo che lei atterrasse a Ciampino: ci avrei messo meno ad arrivare a casa”".

 Poi di vite, lei ne ha vissute tante altre

"Sono stato in Parlamento dieci anni con Alleanza Nazionale, presidente Enav per tre anni. Ho fatto lo skipper in giro per il mondo, dalla Toscana al Sudafrica fino ai Caraibi, attraversando tempeste e mare in burrasca. In moto ho attraversato il deserto del Sahara. Oggi vado ancora in barca, non c’è momento più bello di quando metti le vele a riva e il vento le prende: lì, pretendo il silenzio da tutti, voglio solo ascoltare il suono che fa il mondo".

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