Dalla Bona: "Vialli mi cambiò la vita. Il Milan? Un errore. Il calcio italiano fa schifo, ho pagato la mia onestà"

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L'ex centrocampista portato a Londra da Luca, poi il declino in Italia: "In rossonero mi condannò una partita contro il Real Madrid. Ma che serate a Milano con Borriello..."

Francesco Pietrella

Giornalista

28 novembre 2025 (modifica alle 11:42) - MILANO

"Golden boy" di nome, di fatto e pure per l’acconciatura, perché i suoi capelli lunghi e dorati fluttuavano a centrocampo mischiandosi con la pioggerellina inglese. C’è stato un tempo in cui Samuele Dalla Bona era il futuro della mediana azzurra, la stellina dei Blues, la giovane speranza che a 44 anni ripercorre la sua vita sportiva con onestà e coerenza. Il ragazzo cresciuto a Zingonia a cui Gianluca Vialli cambiò la vita: "Allora, che hai deciso? Vieni al Chelsea?". 

Sam, impossibile dire di no. 

"Ero in Scozia per l’Europeo Under 16, maggio 1998. Giocai da dio. Dopo la finale persa, accanto al pullman, trovai Vialli. “Ora che vuole?”, pensai. Avevo 16 anni. Mi disse che il Chelsea era a caccia di giovani forti e che mi avrebbe voluto con lui". 

Lei però giocava all’Atalanta. Come andò? 

"Scoppiò un casino. Scappai dal collegio la notte di Ferragosto per andare a firmare a Londra". 

Al Chelsea l’accolse un altro ragazzo di Zingonia. 

"Luca Percassi. Abbiamo abitato insieme in un appartamentino a Lancaster Gate, di fronte a Hyde Park. Pioggia, vento, neve e… pallone". 

Come fu l’impatto? 

"Traumatico. Non parlavo una parola di inglese. Il Chelsea ci concesse un insegnante privato che non conosceva l’italiano e andava spedito. A volte non capivo e lo prendevo a parolacce. Infine è stato difficile guadagnarsi il rispetto degli altri". 

In che senso? 

"Debuttai con Vialli nel 2000, ma fu Ranieri a darmi fiducia. Avevo diciott’anni, ero circondato da gente come Hasselbaink, Desailly, Zola, Di Matteo, il mio amico Cudicini, Wise, Terry. A volte qualcuno mi guardava e pensava: “Ma chi è questo qui?”". 

Ranieri cosa le diceva, invece? 

"In due anni non gli ho mai sentito dire un “bravo”, ma è stato fondamentale, un mentore. E anche Vialli. Prima del debutto mi chiamò mentre era in bagno, sulla tazza, e mi disse che mi avrebbe portato con lui contro il Coventry. Ero un po’ imbarazzato". 

Aneddoti da prima squadra? 

"Una volta partecipammo a una festa in maschera, fuori Londra. Il giorno dopo Ranieri mi chiese: “Ao’, cos’avete fatto?”. Eravamo storditi. Al Chelsea non c’erano né ritiri, né diete. Noi italiani mangiavamo bresaola e risottino, gli inglesi e gli stranieri di tutto. Ricordo ancora la carbonara di Hasselbaink prima di una partita importante. Ranieri gli chiese cosa stesse facendo. E lui: “Tranquillo, segno lo stesso”". 

Pentito di aver lasciato Londra? 

"Sì. Era un calcio diverso, più libero, senza pressioni. Panucci e Ranieri mi avevano avvertito di non tornare. Comunque, nel 2001 rifiutai un’offerta del Venezia e il club mi mise fuori rosa. Dopo due mesi Claudio mi reintegrò, ma a fine stagione lasciai. Ci penso ancora oggi: sarei dovuto restare lì a vita". 

Difficile dire no al Milan di Ancelotti. 

"Braida mi anticipò alle 11 che sarebbe stato a Stamford Bridge per Chelsea-Fulham. Spinto dalla famiglia, dall’agente e dagli amici, accettai". 

Solo 16 partite, però. Cosa andò storto? 

"La sfida col Real, giocata da titolare al Bernabeu, mi segnò. Giocai un tempo, e male. Ancelotti mi schierò esterno destro, di fronte avevo Roberto Carlos che andava a tremila. Presi un giallo dopo un quarto d’ora e poi uscii. Era un test. Se l’avessi passato, allora ok, avrei continuato. Purtroppo, il calcio italiano è questa roba qui. Vieni giudicato subito". 

Qualche anno fa disse che il calcio italiano le faceva "schifo". 

"Magari ho esagerato, ma ciò che gira intorno a questo mondo è nocivo, dannoso. Qui un giorno sei scarso, un altro sei il migliore. E questo sì, fa schifo". 

Nel 2003 fu campione d’Europa. 

"Vidi la finale con la Juve dalla tribuna. Ricordo una discussione tra Inzaghi e Sheva durante la rifinitura, si presero a male parole. Maldini si avvicinò e gli disse di fermarsi. Un capitano vero, mi ha sempre messo un po’ di soggezione, dico la verità. Pippo, invece, era un cannibale: prima della finale provò i movimenti da solo in un campo da golf". 

Bologna, Lecce, poi il Napoli. Lì come andò? 

"Un anno al top, gli altri due da emarginato. Nel 2006-07 centrammo la promozione in A, ero titolare, poi non ho più giocato. In estate rifiutai il Birmingham l’ultimo giorno di mercato. Li mandai a quel paese perché mi avevano preso in giro, Reja in primis. E a gennaio si presentò il Cagliari: non mi lasciarono andare". 

Si scrisse, all’epoca, che lei fosse caduto in depressione a causa della morte di suo padre. 

"Mai vero: nel 2011 avevo già deciso di smettere. Scelsi una squadra più vicino a casa per stare vicino a lui, quello sì, ma dopo il suo funerale andai a fare allenamento a Mantova".

Come mai ha smesso a 31 anni? 

"Quel mondo non mi piaceva". 

Il calcio l'ha abbandonata? 

"Un po’, ma potevo fare di più. Sono uno onesto. E l’ho pagata". 

Una follia fatta in carriera? 

"Un’estate, dal nulla, dissi: “Voglio fare tre mesi alla Bobo Vieri”. Feste e discoteche. Avrò speso 50mila euro. La banca temeva che mi avessero clonato la carta. E poi, sono sincero, mi sono sempre piaciute le donne: ho avuto due grandi amori, poi mi sono divertito. Al Milan ero in camera con Borriello, il bellone del gruppo, e uscivamo insieme. “Lasciamene una, bomber”, gli ripetevo. Andava forte".

Oggi di cosa si occupa? 

"Ho investito in case e ho dei terreni. Vorrei fare l’osservatore, dicono che ho occhio. Ma ora che abbiamo parlato di tutto ci terrei a dire una cosa…". 

Prego. 

"In Gazzetta avevo un amico giornalista, Roberto Pelucchi. È morto tre anni fa. Era vero. Come me".

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