L'ex centrocampista della Sampd'oro campione del mondo con zero minuti nell'82: "Il ct preferiva atleti senza interessi extra calcio, ma ad Hammamet con Cossiga ero come un bambino in un negozio di giocattoli. E Vialli..."
Ascoltandolo parlare, subito viene naturale chiedersi cosa Beppe Dossena abbia da spartire con un mondo che spesso viene dipinto come superficiale, vuoto, da qualcuno persino marcio. Che però, in fin dei conti, evidentemente così non è. Perché raccontando del suo passato, l’ex centrocampista della Sampd’oro scudettata snocciola aneddoti molto particolari anche extra-calcio, tra sport, politica (l’amicizia con Craxi), e… sociale.
Dossena, cos’è “Special Team”?
“Un ente del terzo settore che ha l’obiettivo di prendersi cura della comunità degli sportivi di tutte le discipline, sia quelli in attività che soprattutto post carriera. Il presidente è Paolo Maldini. Capisco che l’opinione pubblica possa pensare ‘Vabbè, sono persone che hanno buttato via i soldi’, ma parliamo di individui inattivi per il Paese che possiedono soft-skills fondamentali per il mondo del lavoro. Lo sport non può essere solo la conquista di una medaglia”.
E a proposito di medaglie, a lei rubarono la più preziosa: l’oro Mondiale dell’82. La Federazione si è mai mossa per fargliene avere un’altra?
“No, e non faccio alcun appello. È passato troppo tempo. Ma la mia vita è così: anche quando ho vinto la prima Coppa d’Africa Under 20 con il Ghana la mia medaglia sparì. Diciamo che non devo vivere di ricordi, me lo insegna la mia storia. Non sarà un titolo a farmi vivere meglio. Sarebbe stato corretto restituirmela a suo tempo”.
In quella spedizione spagnola, però, non raccolse neppure un minuto. Un rimpianto?
“Anche quella un’assenza, come la medaglia! E da numero 10. Ma no, nessuno rimpianto: Bearzot aveva le sue gerarchie ma testimoniò la sua stima a Causio, facendo incazzare un po’ Altobelli… Era giusto così”.
Conquistò la Nazionale ben prima dello storico scudetto con la Samp del 1991.
“In quello spogliatoio succedeva di tutto, ma ogni volta che si arrivava al limite non si andava oltre. Nel rispetto di una persona: Paolo Mantovani. Il più grande presidente mai incontrato nella vita, uno che ti dava sempre e solo la risposta giusta. Poi c’erano Vialli il tattico e Mancini lo stratega… il primo arrivava già preparatissimo, il secondo aveva un istinto straordinario”.
Il ricordo più bello legato a Vialli?
“Un Festival di Sanremo: andammo io e lui a vedere la finale, vinsero i Pooh con la canzone ‘Uomini soli’. Luca era il compagno ideale anche per una vacanza in barca di 15 giorni”.
Poi il suo addio al Doria: da una doppietta in Champions alla C1 col Perugia. Perché?
“Dovevo gratitudine al presidente Mantovani: feci quella scelta per evitare di diventare un peso. Ci incontravamo ogni settimana perché non mi voleva mandare via, ma io volevo continuare a giocare, mi arrivò l’offerta di Gaucci e così decisi. Che si trattasse da Serie A, B o C. Ho sempre voluto sentirmi libero: il dono più importante dopo la salute, la libertà”.
E infatti in carriera ha girato mezzo mondo: Ghana, Arabia, Paraguay, Albania, Libia, Etiopia.
“Ma il momento attuale è delicato, secondo me stiamo arrivando ad una rivoluzione epocale. Ragazzi nati oggi non potrebbero godere di un’esperienza simile. La situazione politica è complessa ovunque”.
Non ha mai nascosto la sua passione per la politica: una laurea, la candidatura con il PSI, Craxi…
“Ma non mi candiderei di nuovo. Io avevo il tempo di rincorrere il cambiamento, mi laureai in scienze politiche con indirizzo storico e mai nascosi la mia amicizia con Bettino Craxi. Le più grandi lezioni di storia però le imparai nelle due occasioni in cui andai ad Hammamet con Cossiga e il presidente della repubblica tunisina: sembravo un bambino dentro un negozio di giocattoli. Ma candidandomi attirai tante critiche, questa mia posizione irrigidì anche il ct Bearzot nei miei confronti: voleva un atleta totale che non esprimesse interessi diversi dal calcio. Ma io avevo voglia di sapere”.
Come diventò amico di Craxi?
“A ‘La Domenica Sportiva’, Beppe Viola mi disse ‘Ah, ma voi calciatori non pensate, non parlate, nemmeno votate’. Allora gli risposi: ‘Certo che voto, il partito socialista: Bettino Craxi’. Poi mi arrivò un cartoncino: ‘Una maglia granata e un garofano rosso valgono un’amicizia’. Così diventammo amici”.
È vero che da ragazzino dribblava le prostitute?
“A Porta Palazzo, a mezzanotte, ero più veloce di Usain Bolt. Nemmeno lui mi avrebbe raggiunto. Avevo 14 anni e giocavo nelle giovanili del Torino. Il tram mi lasciava a piedi per 700 metri: bottiglie che volavano, risse, di tutto. Oggi il Telefono Azzurro avrebbe denunciato mia madre e mio padre, ma sono cresciuto. E non potevo parlarne con nessuno, perché in collegio ero in camera da solo. Ma non è mai stato un sacrificio. Avevo quella passione: andavo a letto e non vedevo l’ora di svegliarmi e tornare ad allenarmi, senza pensare mai che sarei diventato calciatore”.
Come valuta la Samp di oggi?
“Negli ultimi anni hanno sbagliato tutto. Player trading? Missione fallita. Risanare una società decotta? Altra missione fallita. Il sistema calcio deve fare più controlli. È tutto assurdo: tante cose si sanno ma non si dicono. Credo sia meglio far fallire un club piuttosto che illudere le persone. Poi nascono tensioni… e mi riferisco a tutto. Entrano persone che hanno interessi ben diversi dalla passione”.
Come, per esempio, quella di Paolo Mantovani.