Zidane: "Lippi mi ha cambiato la testa, nessuno come Del Piero"

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L'ex bianconero non dimentica il passato: "Marcello per me è stato fondamentale. Alex? A Torino c’erano tanti compagni forti, ma lui aveva qualcosa di diverso"

Lorenzo Cascini

8 novembre - 00:38 - MILANO

Zinedine Zidane è elegante anche mentre passeggia per la città. Ce ne accorgiamo subito camminando al suo fianco per il centro di Cannes, dove Zizou è arrivato per partecipare a Match des Légendes, partita benefica tra vecchie glorie del calcio francese. Pure quando si ferma per fare una foto oppure saluta facendo un cenno con la mano. A Cannes lo trattano come un figlio e lo venerano alla stregua di un dio allo stesso tempo. È protetto, coccolato, amato. Quando arriva allo stadio, nei confronti di Zizou c’è una sorta di rispetto misto ad adorazione. Foto, sciarpe, persino un quadro con la maglia di Enzo Francescoli (l’idolo del Pallone d’oro 1998 che col suo nome ha chiamato anche uno dei suoi figli) da far firmare: trascorrere mezzora a due passi da Zinedine significa godere di questo amore spassionato dei tifosi nei suoi confronti. Re e figliol prodigo insieme. Qui per tutti è solo “Z”, che si legge “Zed”. Lo hanno visto crescere, diventare un campione e spiccare il volo. Ha giocato in biancorosso per tre anni, dall’89 al ’92, raccogliendo una sessantina di partite in Ligue 1 e facendo vedere i primi lampi di un talento purissimo. D’altronde, a lui le cose brutte non sono mai riuscite. Un lancio, un tiro dal limite, persino un tocco in disimpegno: era tutto bello, da vedere. Lo Zidane calciatore custodiva nel movimento un’armonia fuori catalogo, innata. Unica. E adesso, quando - quasi 35 anni dopo - indossa la numero 10 biancorossa, sembra di salire su una DeLorean e fare un balzo indietro nel tempo come in Ritorno al futuro. “Z”, a Cannes, ha conosciuto Veronique, con cui poi ha messo su famiglia. Qui ha imparato a colpire di testa. Talmente bene che, dopo la doppietta nella finale del Mondiale 1998, chiamò proprio il suo vecchio mister. Come a dire: “Mi hai insegnato bene”. È cresciuto, ha esordito con i grandi, rendendo fiero Jean Varraud. Fu infatti lui a segnalare Zinedine quando giocava nel Saint-Henri e poi al Septèmes-les-Vallons. Qui Zidane ha conosciuto anche la sofferenza della sconfitta: una retrocessione inevitabile in una stagione storta, terminata con la cessione al Bordeaux. Lo hanno anche “bastonato” quando serviva. A 16 anni fu espulso per un fallo di reazione e la società lo mandò per una settimana a pulire i gabinetti del centro sportivo. Entrava per primo e usciva per ultimo. In campo, invece, è già incredibilmente armonico. Quando debutta è ancora minorenne, ma è subito chiaro a tutti di aver trovato una stella. Uno arrivato da un altro pianeta o qualcosa di simile. Che passa ogni cento anni o forse mai più. Fuori dal campo, “Z” non è mai cambiato. Anzi, forse, a Cannes, da quello che raccontano, era anche un po’ più loquace. Nel corso della carriera si è chiuso sempre di più. Per timidezza, mica per spocchia. Si può dire che sia stato lui il più misterioso e impenetrabile dei fuoriclasse moderni, un campione costretto - per quello che ha fatto con il pallone tra i piedi - a stare per una vita sotto la luce dei riflettori ma incline, per sua stessa indole, a rintanarsi nell’ombra, senza concedere mai troppo di se stesso. Un berbero con gli occhi di ghiaccio. 

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