La sperimentazione su topi e primati ha evidenziato una risposta immunitaria duratura e un miglioramento significativo delle funzioni cognitive
Daniele Particelli
27 luglio - 17:06 - MILANO
Negli ultimi anni sono stati fatti dei passi in avanti nel trattamento dell'Alzheimer, la patologia neurodegenerativa che ad oggi rappresenta ancora la causa più comune di demenza nella popolazione anziana dei Paesi sviluppati, così come nel monitoraggio della progressione della malattia e sul fronte della diagnosi precoce. Ora, però, la messa a punto di un vaccino sperimentale potrebbe cambiare le sorti della lotta contro questa malattia che, secondo l'Osservatorio delle demenze coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità, riguarda circa 600mila anziani in Italia.
Vaccino per Alzheimer: sarà possibile bloccare la malattia?
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Un team di ricercatori dell’Università del New Mexico ha messo a punto una nuova formulazione che sarebbe in grado di colpire la proteina tau, una delle principali responsabili della neurodegenerazione nei pazienti colpiti dall'Alzheimer. I risultati preclinici, pubblicati sulla rivista Alzheimer’s & Dementia, sono promettenti: nei topi e nei primati non umani vaccinati si sono osservati una risposta immunitaria duratura e un miglioramento significativo delle funzioni cognitive.
Cosa è emerso dallo studio sul vaccino
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Se fino ad oggi la maggior parte dei farmaci approvati mirava alla proteina beta-amiloide, spesso associata all'Alzheimer, negli ultimi anni la comunità scientifica ha iniziato a rivolgere l’attenzione sulla proteina tau, più strettamente legata al declino cognitivo. Il nuovo vaccino, sviluppato dal team guidato dal professor Kiran Bhaskar, va ad agire proprio su una porzione specifica della tau patologica, nota come pT181, considerata un biomarcatore chiave della malattia.
In laboratorio il vaccino ha mostrato una riduzione degli aggregati proteici nel cervello dei topi geneticamente modificati e un netto miglioramento nei test di memoria. A confermare il potenziale terapeutico sono stati anche i risultati ottenuti nei macachi rhesus – animali con un sistema immunitario simile a quello umano – grazie alla collaborazione con l’UC Davis e il California National Primate Research Center.
La produzione di anticorpi specifici contro la tau è stata robusta e persistente, segnalando un’efficace attivazione del sistema immunitario. Gli anticorpi raccolti dal sangue dei primati vaccinati sono stati poi testati su campioni di sangue umano e su tessuti cerebrali di persone decedute con Alzheimer. Anche in questo caso l’efficacia è stata confermata: gli anticorpi si legano alla versione umana della tau, mostrando potenziale per un uso clinico.
Il vaccino per l'Alzheimer, una tecnologia innovativa e più sicura.
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Il nuovo vaccino si basa su particelle virus-simili (VLP, Virus-Like Particles), strutture prive di materiale genetico ma capaci di esporre frammenti proteici al sistema immunitario, stimolando così una risposta duratura. A differenza di altri vaccini, questo non richiede adiuvanti – sostanze aggiuntive per potenziare la risposta immunitaria – un aspetto che, almeno in teoria, lo renderebbe più sicuro per l’impiego sull’uomo.
I ricercatori hanno sottolineato che una singola inoculazione primaria, seguita da due richiami, è stata sufficiente per garantire un’immunità efficace nei test. E adesso? Il passaggio cruciale sarà ora l’avvio della fase 1 della sperimentazione clinica sull’uomo, per la quale sono in corso ricerche di finanziamenti da parte di investitori e fondazioni.
Nicole Maphis, prima autrice degli studi, ha messo in evidenza come i primati non umani abbiano rappresentato un modello pre-clinico ideale per testare l’efficacia del vaccino, avvicinando il team alla possibile applicazione su pazienti. Se i risultati clinici dei test che saranno eseguiti sugli essere umani dovessero confermare l’efficacia dimostrata negli animali, potremmo davvero trovarci di fronte a una svolta epocale nella lotta contro l'Alzheimer, con uno strumento in grado non solo di rallentare, ma forse di bloccare l’Alzheimer prima che progredisca, migliorando così la qualità della vita di milioni di persone in tutto il mondo, oltre 55 milioni secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.