L’ex difensore di Samb, Verona, Bologna e Lazio si racconta: "So che non mi resta molto. Un anonimo disse che sapevo dove tenevano Emanuela e nel 1978 in quei vagoni deragliati c’erano cadaveri ovunque. Odiavo le ingiustizie ora il calcio mi rifiuta"
Nessun “nomen omen” fu così beffardo. Arcadio Spinozzi non ha mai trovato la sua Arcadia, manifesto di pace e purezza. L’ha inseguita per tutta la vita sfiorandola e basta. Marcatore nudo e crudo passato per Sambenedettese, Verona, Bologna e Lazio, sul suo cammino ha trovato di tutto: a 18 anni ha rischiato di morire per il troppo stress, a 25 rimase coinvolto in un incidente ferroviario che costò la vita a 48 persone, a 30 fu tirato in ballo in forma anonima sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Oggi che ha 72 anni si è ritirato a Tortoreto, in Abruzzo, la città di mare dov’è cresciuto e dove sta lottando contro un tumore.
Arcadio, come sta?
"Vado avanti così dal 2009, ora è tornato in forma più aggressiva e con metastasi. Negli ultimi tre mesi ho svolto 35 sedute di radioterapia. Dovranno togliermi la vescica, ma spero di salvare almeno uno dei due reni. Devo capire, ma sono sincero: non mi resta molto da vivere".
C’è qualcuno che la aiuta?
"Vivo con mia figlia, ha 28 anni, sta con me da quando sua madre non c’è più, ma il nostro rapporto non è dei migliori. Non sono stato un padre modello, diciamo così. Ma le mie condizioni sono peggiorate".
Ha paura di morire?
"Ho visto la morte in faccia già due volte. La prima non avevo ancora 20 anni, giocavo alla Sambenedetesse ed ero divorato dallo stress. Vivevo a Tortoreto, andavo a scuola a Giulianova e mi allenavo a San Benedetto. Tornavo a casa la sera tardi".
Quand’è che riposava?
"Mai, neanche la domenica. L’unico treno per San Benedetto era alle 6.10 del mattino. Io mi alzavo alle 5.15. Una vita al limite spinta dalla passione per il calcio, ma all’improvviso mi sentii sempre più stanco, accaldato, fiacco. Fui ricoverato in tre ospedali diversi e smisi di giocare. Ero diventato uno scheletro, spesso pensavo che non mi sarei svegliato".
Come ne uscì?
"Andai in un ospedale psichiatrico e un medico capì: 'È solo stress'. Consigliò ai miei genitori di portarmi in montagna. Ripresi a camminare, a vivere e a giocare con la Samb. Era il 1975. Dopo un paio d’anni mi acquistò il Verona, in Serie A".
Lì un’altra sciagura: l’incidente di Murazze di Vado, dove morirono 48 persone. Lei e tutto il Verona salvi per miracolo.
"Pioveva da tre giorni, stavamo andando a Roma. Parte di una frana era finita sui binari e l’altro treno, un Bari-Milano con venti ore di ritardo, deragliò. Noi stavamo giocando a carte e il capotreno ci mandò a pranzo nel primo turno, in un’altra carrozza. Quelli del secondo morirono tutti. Quel capotreno ci salvò la vita. Un quarto d’ora dopo e saremmo morti".
Si sente un sopravvissuto?
"Sì, avevo la testa altrove. C’erano fango e cadaveri ovunque. Uscii con una scarpa sola, pieno di fango, per raggiungere l’autostrada. Una volta chiamati i soccorsi mi sdraiai in mezzo alle corsie. C’erano corpi mutilati tra le lamiere, con gli occhi aperti. Il preparatore aveva una braccio spezzato ed era coperto di sangue. Uscirne fu dura".
Nel 1980 arrivò alla Lazio, dove i tifosi la amano ancora.
"Perché non sono mai stato un ruffiano. Ero visto come un sindacalista, in prima fila contro Moggi e Sbardella per via delle promesse non mantenute. Uno spogliatoio… anomalo. Alcuni facevano a gara a chi avesse la pistola migliore. Ma uscivano menzogne sui giornali e in tv. Ci davano dei mercenari, scrivevano che non ce ne fregava nulla, ma erano bugie montate ad arte. Sono taciturno, ma non sopporto le ingiustizie. Con Moggi mi scontrai perché voleva vendermi alla Cavese, io dissi di no e lui fece uscire sui giornali che io avevo chiesto cifre improponibili. Dissi che non avrei giocato più".
Cos’è che non le piaceva di Moggi?
"Non l’ho mai sentito dire la verità. Andava a cena con persone strane: gente del Vaticano, della Guardia di Finanza…».
La storia di Emanuela Orlandi come la spiega?
"Nel 1983 qualcuno spedì una lettera all’Ansa di Milano. Ho sempre pensato che dietro ci fosse la mano dei dirigenti della Lazio".
 
        
        
            
        
    Come mai?
"Perché fu inviata da Bari durante una partita della Nazionale. Loro erano tutti lì, ma lasciamo stare. C’era scritto che sapevo dove l’avessero portata. Le conseguenze furono enormi, chiesi aiuto perfino a Pertini: fui minacciato di morte, dicevano che mi avrebbero fatto sparire. Dicono che fecero il mio nome per colpire Bruno Giordano, mio compagno di squadra ed ex marito di Sabrina Minardi, amante di Enrico De Pedis, figura di spicco della Banda della Magliana, per me fu una vendetta per farmela pagare".
"Il calcio mi ha tradito", ha detto anni fa.
"Ho denunciato ciò che accadeva. Truccavano partite, trasmissioni, moviole, arbitri. Mi porto dietro un fardello chiamato coscienza. Io non ho più allenato per colpa dei delinquenti veri. Ho impiegato 12 anni a prendere il patentino a pieni voti. Ho vinto una Coppa Italia Primavera con l’Udinese, fatto lo scout per la Juve, ma mai una telefonata. Nel 2000 ho allenato in Ghana perché non mi chiamava più nessuno".
E lei che difensore è stato?
"Uno che ti randellava e ti stava addosso. Nel 1984 marcai Paolo Rossi in uno Juve-Lazio. Aveva appena segnato 3 gol al Messico. Non toccò palla".
Rimpianti ne ha?
"Da testone quale sono rifarei tutto, anche se il sistema mi ha fatto fuori. Ora spero solo di continuare a vivere il più a lungo possibile".


 
            









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