Il prossimo avversario di Sinner è il gigante kazako che spara missili al servizio e gioca ogni punto rischiando al massimo. Al Roland Garros doveva uscire contro De Minaur, quando "sotto due set a zero pensavo al volo per tornare a casa". E invece...
Lorenzo Topello
3 giugno - 21:00 - MILANO
“Ragazzi, non fatemi piangere…”. All’ora dell’aperitivo di un lunedì di giugno, Alexander Bublik abbandona i panni del giocherellone e diventa una maschera tragica. Gli dicono: “Ma no, Sascha. Esternale pure, le tue emozioni”. Prima del colpo di teatro del kazako: “No, grazie: sono un tennista professionista, ho ancora una partita da giocare e devo arrivarci preparato”. Suscitare risate e lacrime di commozione nella stessa scena è privilegio solo dei grandi interpreti. Anche se fra le mani stringono una racchetta. Il teatro (leggasi campo Suzanne Lenglen) è ai suoi piedi e applaude sportivo anche l’antagonista che è diventato un primattore (Jack Draper, numero 5 del mondo). Sì, è la serata di Alexander Bublik che conquista per la prima volta i quarti di finale del Roland Garros e si regala l’incrocio con Sinner: “Sapete che a volte nella vita c’è una sola opportunità: oggi sentivo che fosse la mia. Ora sto qui a godermi il momento più bello della mia esistenza”. E pazienza per il look non esattamente alla Hugh Grant: capelli spiegazzati come un giornale della settimana scorsa, terra rossa fin dentro al naso. Perfino il modo in cui porta la barba è un passante alla convenzionalità. Ma in fondo il punto è un altro: che ad Alexander Bublik tolgano oppure no la sregolatezza, rimane comunque una impressionante quantità di genio.
la rimonta contro de minaur
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Parigi val bene un exploit. Quello che il kazako ricorderà per sempre. La lezione di Bublik, una volta tanto, è nella sostanza invece che nella forma: diceva di odiare la terra, eppure è proprio il rosso a regalargli la missione Slam più entusiasmante della carriera: è il primo giocatore di nazionalità kazaka a spingersi così lontano, con ulteriori stellette da appuntarsi sul petto come le vittorie contro i top 10 De Minaur e appunto Draper. Assurda, la giornata vissuta contro Alex, dal momento che i primi due set Bublik li aveva persi: “Giocavamo alle 11 del mattino, non proprio il mio orario preferito. Ero un po’ assonnato nei primi due parziali. Nella mia testa stavo già pensando ai biglietti per il ritorno: in fondo quest’anno prima di questa sfida ne avevo già vinte 12-13 sul rosso. Non mi era mai accaduto. Tutto sommato essere al secondo turno era già un buon traguardo”. E poi, all’improvviso, Bublik è diventato un cannibale. Uno squalo che si aggrappa all’ultimo brandello di zattera, per rovesciarla e addentarla in un boccone, col suo tennis supersonico (il servizio viaggia sempre che è una bellezza) e alla ricerca dei vincenti come di un Graal da custodire con cura. Un set point lo ha convertito colpendo con la racchetta fra le gambe, ma la novità è un’altra: alla fine ha rimontato fino a passare il turno.

galeotto fu monfils
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Il genio non lo togli nemmeno a pregare, fortunatamente. La sregolatezza, ultimamente, pare si sia attutita grazie a una chiacchierata con l’amico Gael Monfils: “Ho parlato con lui a Dubai, mi lamentavo: prima tutto era più facile, oggi tutti giocano benissimo. E lui mi ha risposto: ‘Ora sono tutti professionisti: prima quelli focalizzati nel tour erano pochi, a parte i grandissimi. Ma tra i primi 50 e 100 giocatori c’erano ragazzi che pensavano a godersi la vita e non avevano nemmeno fisioterapisti e coach. Io oggi devo trovare un modo per batterli, anche se sono due volte più rigidi nelle loro routine rispetto a me’. Gael mi ha aperto gli occhi: mi ha spiegato che sfruttare le occasioni che arrivano è una mia responsabilità. Ho smesso di lamentarmi”. Galeotto fu il colloquio col collega (quasi) quarantenne: quello con cui Bublik ha conquistato tempo addietro la sua prima vittoria Slam contro un top 10 e con cui improvvisava partite di ping pong sul cemento di Miami, giusto un anno fa. Le lamentele sono evaporate, diventando al massimo uscite scherzose. Come quella, epica, a Madrid durante un cambio campo contro Mensik, quando Sascha si è rivolto così all’arbitro: “Ti ricordi quando era facile giocare a tennis? Cinque anni fa c’era un sacco di gente improvvisata in top 50: si muovevano a malapena. Ora questo qua non è neanche in top 10: come c***o è possibile?”. Merito del lavoro di cui parlava il saggio Gael.

ricetta bublik
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Sascha non scherza quando dice di non sopportare la terra. In carriera ha vinto sul rosso solo un titolo, il Challenger di maggio 2025 a Torino: “Io la odio. Non vedo l’ora che passino questi mesi, amo il momento in cui si passa all’erba. Spero di non calpestare il rosso per almeno dieci anni” sbraitava qualche anno fa a Montecarlo. E ora eccolo lì, a piangere commosso per la vittoria forse più significativa della carriera. La ricetta, almeno sul piano tecnico, è la solita: potenza nello scambio, voglia matta di accelerare anche a costo di sbagliare (con Draper ha collezionato come sempre più errori gratuiti, ma ha anche trovato la bellezza di 68 vincenti contro 37) e smorzate contro la noia, la convenzionalità e certi difetti della vita del tennista che a Bublik proprio non vanno giù: “La trovo insopportabile. Essere un professionista, così come affrontare nuovi avversari anche se sei stanco e hai dolore, è difficile. Devi andare avanti anche se ti lascia la fidanzata”.
la notte da leoni di bublik
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A proposito di andare avanti. Quest’anno, prima dell’exploit a Parigi, non è che stesse viaggiando granché come testimonia il 62 alla voce ranking. E allora Alexander, dopo il ko al primo turno di Indian Wells, ha ascoltato il consiglio di un altro amico, il coach. Meditazione? Allenamenti più intensi? Palestra? Dieta? Il contrario: “Sascha, dammi retta, se continui a giocare così siamo fuori dal grande tennis prima di Wimbledon. Ti serve una scossa. Vai a farti tre giorni a Las Vegas”. Perché la vita del tennista professionista è insopportabile. E allora ogni tanto le batterie vanno ricaricate con una notte da leoni: “Sono stati giorni di hangover, sì. Un bel weekend. Poi sono andato a Phoenix per il Challenger, arrivando in città tre ore prima del match di esordio: non avevo la minima aspettativa, volevo semplicemente colpire la pallina e sfogarmi”. È arrivato in finale. A Parigi contro De Minaur pensava solo ai biglietti di ritorno. E invece, due ore dopo, si è trovato a disdire il check-in e prenotare un tavolo per cena: in compagnia di chi e con quali programmi notturni, non è dato saperlo. E in fondo, è dannatamente meglio così.