Horry: "Divertimento, duttilità e un centro dominante, così sono diventato Big Shot Rob"

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L'ala che ha trionfato con Rockets, Lakers e Spurs mettendo spesso i tiri decisivi si confessa alla Gazzetta: "Jackson e Popovich unici per come stimolavano il gruppo. Io ci mettevo quello che serviva per vincere"

Gianmarco Calvaresi

8 giugno - 10:13 - MILANO

“The right man, in the right place”. C’è un uomo che forse più di tutti rappresenta alla perfezione questo motto nel mondo del basket: Robert Horry, che ha giocato in Nba dal 1992 al 2008, laureandosi campione in sette occasioni. Due titoli a Houston, tre a Los Angeles con i Lakers e gli ultimi due con i San Antonio Spurs, a coronare una carriera leggendaria che lo ha reso il giocatore più vincente dell’era moderna. Horry è stato l’uomo giusto al posto giusto, e non solo perché ha vinto ovunque abbia giocato (ad eccezione dell’annata con i Phoenix Suns): la sua capacità di venir fuori nei momenti decisivi gli è valsa il soprannome di “Big Shot Rob”, perché alcuni dei tiri più pesanti nella storia dei playoff portano la sua firma. E Horry ha ripercorso quell’incredibile viaggio che è stata la sua carriera, con lo sguardo luminoso di ricorda il passato con gioia, con la consapevolezza di aver lasciato un’impronta gigantesca nel gioco che ama. 

Nel 2021 l’Nba ha rilasciato un video per celebrare il suo 75esimo anniversario con tutte le leggende del gioco: c’è un momento in cui una bambina grida “Big Shot Rob!”, e c'è lei che fai il gesto dei sette anelli. Tornando all’inizio, alla notte del draft, avrebbe mai immaginato una carriera del genere?

"No, era qualcosa che andava decisamente oltre la mia immaginazione. Quando un giocatore inizia la sua carriera, spesso viene scelto da una squadra in cui non vuole giocare, mentre io sono stato chiamato dai Rockets, ed ero molto eccitato all’idea di giocare a Houston. C’era Olajuwon, c’era un buon roster, e guardando al mio talento e alle caratteristiche della squadra sapevo che sarebbe stato un fit perfetto per me. Sedici anni e sette titoli dopo, guardando indietro, non posso che essere orgoglioso della mia carriera: ci sono giocatori magnifici che ho ammirato crescendo, come Pat Ewing, Karl Malone, Charles Barkley, che sfortunatamente non hanno vinto nulla. Ho giocato con tre squadre fortissime, mi sono divertito molto, quindi ribadisco: sono davvero orgoglioso della mia carriera". 

Com’è stato il suo percorso per diventare “Big Shot Rob”? 

"Per me la chiave è sempre stata il divertimento. Il mio percorso è stato magnifico e molto divertente: è stato fondamentale avere tanta fiducia in me stesso, a prescindere da ciò che poteva succedere intorno a me, ma ancora di più il riuscire a godermi i momenti che stavo vivendo. Tanti vedono il basket come uno sport o come un business, e certamente lo è, ma è anche divertimento: bisogna imparare anche a viverlo come tale, per gestire determinate pressioni e rendere al meglio mentre si è in campo. È quello che ho sempre cercato di fare durante la mia carriera, andando oltre lo sport, oltre il business". 

Houston, Los Angeles, San Antonio: come diceva Cesare, è arrivato, ha osservato, ha vinto. Aveva la sensazione che ognuna di queste squadre potesse essere vincente? 

"Ogni volta che cambiavo squadra guardavo il roster, la quantità di talento presente e pensavo – ad eccezione di Phoenix nel ’96 – che poteva essere un team vincente. Se guardi i quintetti, ognuna di queste squadre aveva un centro dominante: Hakeem ai Rockets, Shaq ai Lakers, Tim Duncan agli Spurs. Tutti e tre sono tra i migliori di sempre. Dunque, la questione per me diventava: 'Cosa posso aggiungere a questa squadra? Sono capace di modellare il mio gioco per essere quel collante che fa rendere il team al meglio?' Probabilmente sarei potuto diventare una stella più brillante, ma alla fine l’unica cosa che contava era vincere, e sapevo esattamente quale doveva essere il mio ruolo per migliorare la produzione di una squadra. Se mancava leadership cercavo di portarla, se c’era da lanciarsi sul parquet per recuperare un pallone mi lanciavo, se c’era da segnare un tiro (sorride) lo segnavo: dovevo essere quello che colmava una mancanza, e fare tutto ciò che era in mio potere per aiutare la squadra a vincere". 

Ha nominato Olajuwon, Shaq, Duncan, e ci sarebbero anche Kobe, Ginobili, Parker. Cosa provava sapendo che leggende come queste si fidavano di lei per il tiro decisivo? 

"È davvero fantastico. Ha nominato alcuni tra i migliori di sempre, membri della Hall of Fame, e sapere che nel finale si affidavano a me era la spinta che mi dava sempre quel qualcosa in più. Devo ringraziarli, perché in certe occasioni avrebbero potuto costruirsi un tiro da soli, ma loro, così come i coach, contavano su di me. E a prescindere da ciò che può dire la stampa, o da ciò che dicono gli avversari e i tifosi, il basket è un gioco di squadra, e sapere che la tua squadra si fida di te, conta su di te e crede che tu possa mettere il tiro decisivo è la miglior sensazione possibile, la più bella gratificazione che questo gioco possa darti". 

Parlando di coach, è stato allenato da due dei migliori di sempre: Phil Jackson e Gregg Popovich. In quali aspetti, secondo lei, eccellevano rispetto agli altri? 

"Quando arrivi a un certo livello e ti abitui a vincere, riesci a vedere quali sono le dinamiche ricorrenti. Tutti i coach dicono di valorizzare i compagni di squadra, ma ci sono poi quelli che sanno dare ai giocatori la giusta fiducia, li capiscono e fanno in modo che possano essere loro stessi. Phil e Pop, in modi diversi e con i loro stili, in questo erano molto simili. Se si guarda alle squadre che avevano, si potrebbe addirittura pensare che il coach non servisse nemmeno, visto il talento dei giocatori, ma era fondamentale che loro innestassero nel gruppo quella fiducia reciproca necessaria per vincere. Sta tutto lì, nel convincere i giocatori a fidarsi, e questo è un aspetto molto 'cool' che ho trovato in entrambi. Un altro aspetto fondamentale, poi, è la comunicazione. È una chiave importantissima, perché ci sono alcuni allenatori che hanno paura di parlare con determinati giocatori, ma è uno degli aspetti fondamentali del gioco. Che tu sia il miglior giocatore della squadra, o uno che esce dalla panchina, l’allenatore deve parlarti allo stesso modo, con chiarezza, perché è così che si costruiscono le relazioni. È un concetto che va anche oltre lo sport, perché la comunicazione è la base di qualsiasi relazione, che sia lavorativa, di amicizia o di amore. E se un giocatore riceve una determinata comunicazione, poi è in grado di restituirla, e tutto il contesto ne beneficia. In questo, Jackson e Popovich sono stati due maestri, e hanno costruito dei sistemi vincenti". 

Ha smesso di giocare ormai da diversi anni, ma c’è un momento particolare della sua carriera che le piacerebbe rivivere? 

"Direi tutto. È stato così bello, sin dall’inizio: penso al primo anno in cui abbiamo perso contro Seattle, poi abbiamo vinto per due anni di fila, nel quarto sono stato al di sotto delle aspettative e sono stato scambiato, ma non c’è stato un momento che io non mi sia goduto. Forse vorrei rivivere l’ultimo anno, credo che farei le cose diversamente. Sapevo che il sedicesimo anno sarebbe stato il mio ultimo nella lega, e il mio mindset non era quello giusto. Forse quella è la cosa che cambierei. Col senno di poi mi sarebbe piaciuto fare come Kobe, uscire di scena con una prestazione pazzesca, invece pensavo: 'Ok, è il mio ultimo anno, sono rilassato e tranquillo'. Per il resto, quando guardo indietro, è difficile avere dei rimpianti. È stato un viaggio incredibile, e lo ripercorrerei con gioia dall’inizio alla fine".

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