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Un ritorno e un esonero segnano il destino di due allenatori che hanno sempre scelto la sobrietà al protagonismo
Donadoni che torna, Pioli che cade. È un incrocio tra professionisti che, per anni, hanno rappresentato due volti diversi di uno stesso stile di calcio: sobrio, educato, fortunato a metà. Roberto Donadoni e Stefano Pioli appartengono alla generazione di allenatori nati a cavallo degli anni Sessanta, figli di un calcio meno urlato, più tecnico e più umano. Entrambi ex calciatori di qualità (Donadoni, uno dei tanti figli di Sacchi, con più successo), si sono distinti per discrezione e competenza, senza mai diventare personaggi. Entrambi rappresentano la generazione di tecnici che ha vissuto il passaggio dal calcio artigianale a quello industriale: hanno studiato, aggiornato i propri metodi, accettato l’idea che il calcio oggi richieda più psicologia che schemi, ché quelli, più o meno, li conoscono tutti. Entrambi un po’ fuori moda, se si vuole. Senza slogan, senza urla, con la forza della misura. Accusati di avere scarsa personalità perché, in un mondo di strepiti, chi è educato spesso viene scambiato per debole. Donadoni, con il suo tono basso, sembra voler ricordare che il mestiere dell’allenatore non è quello del motivatore televisivo. Pioli, nel silenzio dell’uscita, ribadisce che si può cadere senza trasformare la sconfitta in un processo mediatico in cui i colpevoli sono gli altri.










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