Quattro aneddoti per raccontare la persona e non il calciatore (ieri) e l’allenatore (oggi). Concreto, generoso, istintivo, sincero, genuino. Capace di pagare di tasca sua gli stipendi ai giocatori
Quattro aneddoti. Di tutte le cose che mi ricordo, sono quattro quelle che, per un motivo ben preciso, vanno a costruire il mio privato e personalissimo Rino Gattuso. Il primo, ovviamente, è del Mondiale 2006. L’Italia ha un allenatore, Marcello Lippi, e uno staff tecnico di cui fa parte il tattico Adriano Bacconi: quello che studia gli avversari e mette in luce pericoli e difetti della squadra avversaria. Ecco, prima di ogni partita Gattuso va da Bacconi e gli dice: Adriano, io voglio sapere tutto dell’arbitro. Come, l’arbitro? Per me, dice Bacconi, era un palo in mezzo al campo. Tu mi devi dire dell’arbitro, insiste Ringhio: voglio sapere cosa posso fare e cosa non devo fare. Voglio sapere fin dove mi posso spingere. Bacconi produce un report di trenta pagine: troppe. Lo riduce, fino a portarlo a una singola pagina. E quella pagina, partita dopo partita, finisce davanti ai giocatori. Aveva ragione Gattuso, spiega Bacconi: era importante sapere dove mettere l’asticella dell’aggressività, sapere se l’arbitro non tollera i falli di reazione, le proteste o le entrate da dietro. Visto come abbiamo poi vinto quei Mondiali, si rivelò fondamentale: tutti ci ricordiamo Materazzi che esce dal campo dopo un’espulsione ingiusta contro l’Australia (per fallo su Zambrotta…) e la squalifica di una sola giornata (invece delle due di regolamento) che gli consentirà di riprendere il torneo. E tutti ci ricordiamo come abbiamo vinto quella finale: diciamo che l’atteggiamento nei confronti dell’arbitro sicuramente ha aiutato.
da ringhio a rino
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Non è, però, il primo episodio da spogliatoio che ho di Gattuso. Il Ringhio che mi ricordavo io era un altro: quello che l’anno precedente era andato a esultare rabbiosamente in faccia a Christian Poulsen, alla fine di Milan-Schalke 04. Poulsen, difensore specializzato nel far incazzare gli avversari. Molti si ricordano dell’episodio orribile di Totti, che gli sputò, ma pochi rammentano che il difensore danese nella sua carriera è riuscito a far andare fuori di brocca Micoud e Kakà, due dei calciatori più buoni che si conoscano. Kakà venne sostituito da Ancelotti, nel corso di quella partita, per evitare che il brasiliano si facesse espellere: e Gattuso spiegherà poi che era quella la ragione della sua esultanza, "andare a fare falli cattivi su un ragazzo d’oro come Kakà è una cosa che mi ha fatto imbestialire, non gliel’ho mai perdonata". Un atteggiamento sbagliato? Forse. Alzi la mano chi di noi non ha intimamente goduto un pochettino nel vedere quella scena. Io la mia la tengo bassa. Il calcio serve anche a questo, per noi spettatori: a sfogarsi, a far esplodere in novanta minuti privi di conseguenze tutto il giramento di scatole accumulato durante la giornata. Poi la partita finisce, si esce dalla doccia, e ci si beve qualcosa su. Torniamo razionali. Ecco, Gattuso aveva palesemente questo interruttore: in campo, Ringhio. Fuori dal campo Gennaro, ma chiamami Rino.
elmetto
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Da giocatore, poi, Gattuso diventa allenatore. Anche qui, due aneddoti. Il primo risale al 2016, alla finale play-off per la promozione in Serie B. Si scontrano il Foggia allenato da De Zerbi e il Pisa allenato proprio dal caro Rino Gattuso. Il Foggia è più forte, gioca meglio, ha una rosa di qualità superiore: però l’andata la vince il Pisa, 4-2. E il ritorno? Vengono intervistati i due allenatori: De Zerbi spiega come affronterà la partita da un punto di vista tattico. Poi, la parola passa a Gattuso: e l’allenatore del Pisa dice testualmente "Cosa faremo al ritorno? Ci mettiamo l’elmetto chiodato, ci facciamo il segno della croce, e quello che succede succede…". Non posso nascondere che, nell’udire quelle parole, io e mio fratello pensammo “è fatta”. E così fu: il Pisa pareggiò la partita di ritorno, con un atteggiamento che definire “catenaccio” sarebbe riduttivo. Non saprei descrivere lo schieramento tattico di quella partita: forse Alessandro Barbero ci sarebbe riuscito meglio, probabilmente avrebbe trovato qualche analogia con gli schemi dell’esercito longobardo.
le casse d'acqua
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A Pisa, per fare la Serie B, Gattuso rimane, ma è l’unico: nel senso che la società abbandona letteralmente squadra e giocatori al loro destino. Si vedono scene d’altri tempi, con il Ringhio nazionale che va personalmente a comprare le casse d’acqua ai giocatori "sennò bevono alla fontanella", che in conferenza stampa dopo una sconfitta si rifiuta di parlare di calcio "perchè vedo gente di 50 anni che piange perché non sa come pagare il mutuo. Devo far finta di non vedere la gente che lavora senza contratto, oppure il mio staff che non viene pagato da febbraio?". Una coerenza e un senso della realtà che, prima e dopo Pisa, non lo abbandona mai. A Creta paga di tasca sua gli stipendi ai giocatori, a Milano rinuncerà a 11 milioni di buonuscita per poter pagare il suo staff.
meglio insieme che contro
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Quattro aneddoti, di cui nemmeno uno che narri le gesta del Gattuso nel corso dello svolgimento di una partita. Quattro aneddoti che dicono una cosa sola: Gattuso è cresciuto, nel tempo, ed è diventato un uomo che ha il senso della realtà. È una persona che sa distinguere tra i novanta minuti della partita di calcio e i novemilanovecentonovanta del resto della settimana. All’interno del campo da gioco, nei novanta minuti più il recupero, Gennaro Ivan Gattuso non era uno dei miei favoriti; ma per il resto del tempo, era il compagno di squadra, l’allenatore e il capitano che, se avessi giocato a calcio, avrei voluto sempre il più vicino possibile. E sicuramente meglio, molto meglio averlo nella mia squadra che vederlo in quella degli altri.