Il tecnico italiano inaugura la Coppa d'Africa al timone di una nazionale piccolissima contro il Marocco: "Sulla carta non abbiamo chance ma il calcio vive di imprese, dobbiamo essere umili e un po' pazzi"
21 dicembre - 08:51 - RABAT (MAROCCO)
La felicità ha la faccia vissuta di Stefano Cusin. Un tipo pieno di passione spalmata sul mappamondo. I genitori si sono incontrati in Alta Savoia, Francia, dove erano arrivati bambini al seguito di famiglie partite dal Veneto e dalla Toscana per cercare lavoro. Insieme i giovani coniugi Cusin sono andati a fare lo stesso a Londra e poi in Canada, dove è nato Stefano, nel 1968. Tre anni dopo sono tornati sulle montagne del sud della Francia, a Saint-Jeoire en Faucigny. “Dalla mia camera vedevo il Monte Bianco”, ricorda l’allenatore delle Isole Comore che apre contro il Marocco la Coppa d'Africa.
E poi?
“Cresco lì nelle case popolari con marocchini, tunisini, spagnoli e portoghesi, tra emigrazione, lavoro e pallone. Papà era operaio in una fabbrica di coloranti, facevano la plastica, io facevo tutti gli sport: tennis e sci a livello agonistico. E poi si giocava a calcio fino a quando faceva buio: Francia-Algeria, Italia-Marocco. Bei ricordi”.
Il primo contatto con l’Africa. Il secondo arriva all’inizio di questo secolo.
“Si, cresco, mi obbligano a scegliere un solo sport e dico calcio, un po’ di Francia a Tolone, la Svizzera con gli allenamenti con Kalle Rummenigge al Servette, poi l’amore cambia di nuovo tutto: vado in vacanza in Toscana e conosco una ragazza che diventerà mia moglie. Tornano in Toscana anche i nonni pensionati, stiamo insieme, io calcisticamente riparto dalla seconda categoria e lavoro tra ristoranti e locali, inizio ad allenare i ragazzini per caso e vado forte. Cresco come allenatore, una cosa che non avevo mai pensato di fare, e di nuovo sono obbligato a fare una scelta, dal campo alla panca. Un mio amico smanettone mi dice che il Camerun cerca uno scout. Mi prendono e parto. Venticinque anni dopo, il mal d’Africa non è ancora passato”.
Venticinque anni pieni di viaggi, squadre, Paesi tra Africa, Medio Oriente e la periferia europea. Un pezzo di cammino con Walter Zenga, poi il Sudan del Sud e le Isole Comore. Non esattamente due colossi del panorama africano.
“No, ma due progetti che mi piacevano. Il secondo mi sta entusiasmando. Sono arrivato nel 2023, erano arrivati ultimi nel girone di qualificazione alla Coppa d’Africa dopo aver ottenuto la prima storica qualificazione a quella precedente. La partita col Marocco per aprire la Coppa d’Africa è il coronamento di un sogno, una conquista attesa da anni, io questo torneo venivo a vederlo per passione”.
È la partita più importante della sua vita?
“Senza dubbio. E immortala un periodo fantastico della mia vita”.
Affrontate il Marocco. Nessun timore, giusto?
“Se iniziamo a pensare in maniera razionale possiamo anche stare a casa. Sono la miglior squadra africana e una delle migliori al mondo con tanto di semifinale a Qatar 2022, vengono da 18 vittorie consecutive, hanno appena superato l’Italia nel ranking Fifa arrivando all’undicesimo posto mentre noi siamo in tripla cifra al 108. Hanno 14 giocatori che fanno Champions ed Europa League, noi 9 tesserati tra terza e quarta serie francese. Giocano in casa avvolti da un entusiasmo incredibile, e potrei continuare… Sulla carta non c’è storia, è chiaro che dobbiamo giocare con grande umiltà, ma anche con un po’ di follia”.
Come gliela trasmette?
“Giovedì sera eravamo in albergo e ci siamo visti tutti insieme Portogallo-Grecia, la finale dell’Europeo del 2004. Il calcio è vivo e vegeto perché ci sono storie come queste, la Danimarca nel 1992, il Senegal con la Francia nel 2002, lo Zambia, il Camerun dell’82… Gli esempi sono tanti, la mentalità può ancora fare la differenza”.
E voi come state?
“Abbiamo vinto il girone di qualificazione davanti alla Tunisia e siamo arrivati vicini al Mondiale, nonostante ci tocchi giocare sempre fuori casa. La Confederazione Africana ha bocciato il nostro stadio perché l’erba era gialla e la struttura inadeguata. Siamo andati in Tunisia, Costa d’Avorio, Marocco, dove capitava, ma in due anni abbiamo guadagnato 30 posizioni nel ranking. E costruito una squadra. Sono andato casa per casa a parlare con ragazzi europei con origini alle Comore. Non ne volevano sapere di venire con noi e ora non vogliono uscire dal campo: questa settimana negli allenamenti vicino a Marsiglia pioveva e faceva freddo ma ci mancava poco che dovessi spegnere le luci per chiudere la sessione… Mi dicono che il calcio coi club è un lavoro e che quello vero è questo della nazionale. E io sono felice”.
Ha italiani nello staff?
“Quattro: il tattico Giovanni Colella, il preparatore atletico Gian Luca Sorini, i fisioterapisti Alessandro Pagano, che è stato anche all’Inter, e Gianfranco Caputi che è anche il responsabile della struttura sanitaria. Accanto a loro comoriani e marsigliesi, che è la città di riferimento in Europa del nostro arcipelago”.
Ecco, le Comore. Come sono?
“Tre isole al nord del Madagascar, di origine vulcanica. Magnifiche, sicure e non ancora scoperte dal turismo. Vado spesso a fare corsi per gli allenatori e a dare un’occhiata al calcio locale, ma la differenza tecnica è troppo grande: affrontiamo gente che gioca al top in Europa, non si può improvvisare”.
La Coppa d’Africa?
“Un torneo sensazionale, di livello assoluto, e una festa continentale. Marocco iper favorito, poi dietro ci sono ottime squadre: Senegal, Egitto, Costa d’Avorio e Repubblica Democratica del Congo, che ha 26 convocati nati in Europa e per me diventerà la decima nazionale africana che andrà ai prossimi Mondiali”.
In Africa c’è ancora spazio per il romanticismo?
“Chiaro, e non solo per le piccole come noi, vale anche per le grandi squadre. Mi colpisce la semplicità dei grandi campioni, che aumenta ancor di più quando tornano a casa. La bellezza del calcio africano è che si mischia il sacro col profano, grandi campioni allenati da ct locali poco conosciuti e non sempre aggiornati, ma tantissimi ragazzi nati in Europa sono felici di abbracciare le nazionali dei loro genitori e si adattano senza problemi alle difficoltà logistiche che accompagnano il calcio africano”.







English (US) ·