Cammarelle: "Con Joshua avevo vinto io. Noi pugili di Stato? Sì, ma non ci batteva nessuno"

3 ore fa 1

L’ex Supermassimo italiano, oro a Pechino 2008 e beffato dal futuro campione pro' a Londra: "Se tornassi indietro, andrei in America. In Italia il professionismo non esiste, non siamo in grado di creare l'evento. Non è normale fare un altro lavoro perché di boxe non si vive"

Riccardo Crivelli

Giornalista

20 ottobre 2025 (modifica alle 08:55) - MILANO

Mai fuori dalle righe, timido e concreto, i fatti più che le parole. Anche così si diventa un monumento del ring. Una vita da boxeur che Roberto Cammarelle ha saputo interpretare sempre con intima coerenza, smisurata passione e solo un piccolo rimpianto (non aver vinto l’oro europeo). Il campione dei tre podi olimpici (oro a Pechino) e delle quattro medaglie iridate (due ori) nei supermassimi, nonché dei dieci titoli italiani, può concorrere per il titolo onorifico di miglior pugile dilettante della storia. Ma non di quella italiana. Qui stiamo parlando del mondo. La sua prima vittoria tra i 230 match disputati in canottiera maturò nei campionati interregionali di Varese nel 1995: "Contro Bozza, che prima del match diceva ai compagni 'lo batto facile': fu una disfatta per lui, si ritirò dopo altri due match".

Roberto, partiamo dalla fine: 12 agosto 2012, Londra, finale olimpica, il secondo oro che sfuma per la sconfitta contro Joshua. L’ha più rivisto quel match?

"Ah beh, centinaia di volte, praticamente quando vado ospite da qualche parte sono le prime immagini che tramettono o le prime foto che commentano. E oggi come allora resto della mia convinzione".

E cioè?

"Che avevo vinto. Di sicuro. Ma al tempo stesso ogni volta analizzo cosa avrei potuto fare di più per convincere i giudici ad assegnarmi i colpi che meritavo in quell’ultimo round".

Per lenire l’amarezza, torniamo a quattro anni prima, al trionfo di Pechino contro Zhang Zhilei. Che era cinese. Mai avuto paura di poter finire vittima di giochi politici? 

"Ero campione del mondo in carica, mi ero preparato alla perfezione, sapevo di essere il più forte ed ero tranquillo. Certo, quella fu la prima edizione in cui le finali si disputavano su due giorni e il sabato a un cinese avevano regalato un oro immeritato (nei mediomassimi, ndr) , quindi un po’ di preoccupazione c’era. Ma appena sono salito sul ring, tutto è passato: ero sereno, e totalmente consapevole delle mie capacità e delle mie possibilità".

E pensare che all’inizio degli anni Duemila, proprio quando stava cominciando la sua ascesa, le dissero che non avrebbe potuto più combattere. 

"Una brutta ernia del disco che ha richiesto due interventi chirurgici, il secondo molto delicato. Il medico che mi operò fu schietto: mi avrebbe sistemato la schiena, ma dovevo scordarmi di tornare sul ring. Io l’ho presa come una sfida personale, partecipare all’Olimpiade era sempre stato il mio sogno, non ci avrei rinunciato per niente al mondo, e due anni dopo ci sarebbe stata l’edizione di Atene. Sul ring ci tornai, all’inizio con molta sofferenza, e in Grecia vinsi il bronzo. E se sali sul podio più basso, l’obiettivo seguente è solo l’oro".

La sua generazione, che comprende anche Clemente Russo, Domenico Valentino e Vincenzo Picardi, è rimasta al vertice per un decennio, però vi accusavano di essere 'i pugili di Stato': dilettanti a vita con lo stipendio dei corpi militari. 

"A chi avanzava questa critica rivolgo una domanda semplice: in quei dieci anni c’è stato un avversario capace di batterci e toglierci il posto? Rispondo io: no. Anzi, dopo Pechino avevo deciso che avrei smesso l’anno seguente, alla fine dei Mondiali di Milano, che erano a casa mia e a cui tenevo molto. Vinsi l’oro, dunque ritenevo che la mia parabola agonistica fosse finita. Qualcuno della federazione venne da me e mi supplicò: 'Roberto, per Londra 2012 non abbiamo nessuno nella tua categoria, non smettere'. Il pugile di Stato diventava utile...".

È vero però che lei non ha mai mostrato interesse per il professionismo. 

"Della boxe mi ha sempre affascinato la tecnica, più che il resto del contorno. Dopo le due operazioni non era una strada facilmente praticabile. E poi sarei passato professionista in quale contesto? In Italia il professionismo in pratica non esiste più, abbiamo disperso un patrimonio inestimabile di passione, non siamo più capaci di creare l’evento intorno a un match. Le sembra normale che un professionista debba fare un altro lavoro perché di pugilato non si vive? Se tornassi indietro forse farei la scelta coraggiosa di Vidoz e Vianello: tentare di sfondare in America".

Lei andò in palestra a 13 anni a Cinisello Balsamo, la sua città, perché doveva perdere qualche chilo: quando si accorse che poteva diventare qualcuno facendo a pugni? 

"Quando il maestro Biagio Pierri mi impostò in guardia destra: acquistai in potenza e finalmente portavo tutti i colpi. Subito dopo ho messo giù mio fratello Antonio, che è di un anno più grande e mi aveva sempre menato sul ring. Pensai che se avevo sconfitto lui, potevo battere anche tutti gli altri".

Idolo dell’adolescenza? 

"Ovviamente Tyson, ma solo perché guadagnava miliardi e chiaramente sognavo di riuscirci anch’io. Dal punto di vista tecnico ovviamente Ali, ed è stata una grande emozione vincere l’oro mondiale a Chicago nel 2007 davanti a lui. Ma il mio preferito è sempre stato Roy Jones Jr., quando l’ho conosciuto di persona le gambe un po’ hanno tremato".

Ormai lei è umbro di adozione. Cosa le resta delle sue radici milanesi?

"Scherzando, direi la corsa al fatturato. In altre parole, l’etica del lavoro che mi ha portato dove sono arrivato: magari non sono stato il più talentuoso, ma ero il primo a presentarmi agli allenamenti e l’ultimo ad andarmene".

Oggi lei è dt delle Fiamme Oro: in pratica recluta i nuovi Cammarelle. Con quali caratteristiche? 

"Intanto il talento, ovvio: quindi la capacità di saper stare sul ring. E poi il rispetto dei valori: perché non sono solo atleti, ma rappresenteranno pure le istituzioni".

Leggi l’intero articolo