Birindelli: "Pisano, andavo in curva a vedere Kieft. Ho avuto Spalletti allenatore: che intuizioni"

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L'ex difensore della Juventus fu compagno di Spalletti e ha vissuto il suo esordio da allenatore: "Collante nello spogliatoio, ha sempre avuto una marcia in più. Quanto urlavano Ferrara e Montero..."

Matteo Nava

Giornalista

27 dicembre 2025 (modifica alle 09:26) - MILANO

Oggi Alessandro Birindelli allena in Serie C e lotta per mantenere la categoria con la Pianese ("non facile né scontato, i ragazzi stano facendo qualcosa di importante"), ma Pisa-Juventus è la sintesi della sua vita. Nato all'ombra della torre pendente, per il nerazzurro ha - nell'ordine - tifato, giocato e allenato. Il bianconero, invece, lo ha respirato quotidianamente per ben 11 anni, portandosi a casa tre scudetti, tre Supercoppe italiane e un Intertoto. Curiosamente, il grande calcio lo ha conosciuto per la prima volta insieme a Luciano Spalletti: il tecnico di Certaldo in panchina come allenatore a inizio carriera e lui in difesa come promessa dell'Empoli.

Birindelli, è stato tra i primi calciatori di Spalletti, nel 1994.
"Luciano ha sempre avuto curiosità e determinazione, cercava sempre qualcosa di diverso: si inventò soluzioni nuove già nei primi anni da allenatore, quando abbiamo fatto la scalata dalla C fino alla Serie A. Aveva già mostrato che le intuizioni importanti facevano parte del suo repertorio, aveva sempre qualcosa da inventarsi".

Era immaginabile che sarebbe arrivato a questo livello?
"Si percepiva che aveva una marcia in più, dai rapporti alla gestione sembrava che fosse nato per fare quel mestiere. Per lui la Juventus è arrivata dopo la grande delusione con la Nazionale e quando meno se lo sarebbe aspettato: allenarla adesso non è semplice per nessuno, però lui ha tutte le carte in regola per farlo".

Prima, sempre a Empoli, eravate stati compagni di squadra.
"Era un collante per noi giovani, un giocatore d'esperienza che aveva grande visione: a fine carriera aveva qualche problema fisico, però arrivava sempre prima con la testa, aveva delle letture diverse dagli altri. Dentro e fuori dal campo era un compagno che assicurava grande leadership".

​Che effetto fa vedere la Juventus in ricostruzione?
"Io ho ricordi di una società e di una squadra forte, che aveva nel dna il 'non mollare mai', l'andarsi a cercare la vittoria con determinazione, anche in maniera 'sporca': a volte questi valori e queste caratteristiche vengono un po' meno e fa effetto per chi l'ha vissuta per anni in un'altra ottica. Fare paragoni però sarebbe stupido: cambiano i tempi, la comunicazione, le regole del gioco. Però mi farebbe piacere rivedere una Juventus più dominante: non tanto come risultati, che sono una conseguenza, ma come atteggiamento".

In bianconero ha giocato per 11 anni, prima da giovane e poi da senatore. Questa doppia visione aiuta ad analizzare l'attualità?
"L'errore a volte è cambiare troppo spesso e rincorrere sempre qualcosa: bisogna dare stabilità, credere in un inizio di un progetto. Non è che ogni 3 o 6 mesi bisogna ricambiare tutto. Così facendo i nuovi trovano gente che è arrivata massimo da un anno o due e che sicuramente non ha quella leadership o quel dna di chi era alla Juventus quando sono arrivato io nel 1997, calciatori che vincevano e che determinavano in campo e fuori. Prima di tutto c'è da trovare uno zoccolo duro in 5-6 elementi che poi nel corso degli anni accolgono i nuovi aiutandoli a inserirsi e facendogli capire cosa vuol dire indossare la maglia della Juventus dentro e fuori dal campo".

Cos'è mancato finora?
"La continuità nelle prestazioni. Le partite si possono perdere e vincere, però l'atteggiamento nell'affrontarle non può essere diverso ogni partita: una la affronto bene, quella dopo ho dei cali di tensione. Oppure all'interno della stessa partita ho dei lampi dove la squadra è viva e poi ho delle amnesie totali: questo up and down non ci può essere. L'abitudine alla responsabilità di giocare per questa maglia la devi allenare tutti i giorni, con gente che ti ripete l'importanza di questo fattore".

Chi le aveva mostrato la strada da seguire?
"I particolari facevano la differenza. Mi ricordo le prime partite: noi attaccavamo e io mi sentivo da dietro le urla da parte di Ciro (Ferrara, ndr) e di Montero perché dovevo avvicinarmi subito all'avversario per togliergli già tempo. Io dicevo: 'Ma come? La palla ce l'abbiamo noi'. E parliamo di gente che aveva già vinto scudetti o la Champions: la fame, la voglia di star lì sempre e la cura del particolare, il prevenire sempre un qualcosa che potrebbe accadere. Quello non te lo insegna nessuno. È esperienza, voglia, ce l'hai dentro".

Negli ultimi anni le era capitato di fare da chioccia ai più giovani?
"Non c'è bisogno di tante parole, sono gli atteggiamenti che ti contraddistinguono in un leader o in un compagno che ti dà una mano. Noi che siamo rimasti anche in Serie B eravamo un gruppo che veniva da anni di esperienza e i giovani li abbiamo accompagnati in un percorso che poi si è rivelato importante: Marchisio, Giovinco, De Ceglie, lo stesso Palladino".

A Pisa è nato, ha giocato e allenato: cosa prova a vederlo in Serie A?
"Sono strafelice. Quando il Pisa era in Serie A con Anconetani andavo in Curva Nord a vedere le partite. Mi ricordo ancora bene Kieft, Dunga, Mannini in porta… Rivedere il Pisa in questa categoria riempie di grande orgoglio".

Immagino le sia dispiaciuto giocarci solo un anno, in Serie B nel 2008-2009.
"Sono stato sfortunato: il mio desiderio era giocare nella Juventus e poi finire la carriera nella squadra della mia città. Purtroppo sono arrivato nel momento sbagliato: grossi problemi societari, fallimento a metà anno, niente pagamenti, una retrocessione dopo un girone di andata da quarti in classifica… Una stagione da dimenticare: a livello personale di calcio giocato, Pisa è ancora una ferita aperta: retrocedere con la squadra della tua città non è stata una cosa bella".

Quando è tornato per allenare nelle giovanili c'erano già segnali di un ritorno al top?
"Ho vissuto tre momenti. Uno con Battini presidente a fine percorso: difficoltà e poco budget. Poi c'è stato Petroni, senza stabilità e senza grossa progettualità. Fortunatamente poi ho incontrato Giuseppe Corrado: ho iniziato il mio percorso nel settore giovanile e nel frattempo mio figlio Samuele stava iniziando a calcare i campi tra Serie C e, con Gattuso, Serie B".

Ora segue il Pisa?
"Nello staff c'è un altro pisano, anche lui tifosissimo, e ce lo guardiamo in ritiro: lo seguiamo sempre con grande attenzione sia in viaggio che in albergo o in ufficio. Speriamo nella salvezza".

Impressioni su Gilardino?
"Sono positive, tolte alcune prestazioni negative che però ci stanno. In qualche partita e in qualche episodio avrebbe meritato qualcosa in più: secondo me la classifica del Pisa non è veritiera. È chiaro che ogni domenica c'è da battagliare e a gennaio la società dovrà fare un paio di interventi per mettere a disposizione dell'allenatore delle soluzioni diverse".

Che insidia può rappresentare una trasferta a Pisa, per la Juventus?
"Le squadre che arrivano trovano un ambiente caldo, in campo si percepisce: sia per gli avversari che soprattutto per chi indossa quella maglia nerazzurra. I giocatori hanno un trasporto, un obbligo e un dovere importante verso i tifosi, perché non ti accompagnano solo durante la partita, ma ti accompagnano durante la settimana, arrivano numerosissimi durante la rifinitura, ti accompagnano dall'albergo allo stadio. Chi arriva a Pisa e pensa di fare una passeggiata, trova delle difficoltà come già è accaduto".

Concludiamo parlando di suo figlio Samuele: ormai è un calciatore affermato.
"Mi fa piacere. Ha fatto un percorso non semplice per emergere: giovanili a Pisa, Serie C, Serie B e Serie A sempre con un crescendo di autostima e coraggio. Come nella vita ci sono momenti belli e meno belli e lo scorso anno c'è stata una retrocessione, ma adesso il Monza è lì a combattere per la promozione".

Si rivede in lui?
"In tante cosa sì. Però lui è un pochino più bravo nella fase offensiva, io lo ero in quella difensiva".

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