L'ex giocatore della Roma, oggi tecnico del Fluminense: "Per preparare la partita ho saltato la cena con mia figlia. A Roma non andò bene, ma col senno di poi sarei rimasto. Il rischio fulmini? La natura non la controlliamo noi"
Dal nostro inviato Filippo Conticello
30 giugno - 08:01 - CHARLOTTE
Renato Portaluppi, semplicemente Renato Gaucho in patria, è memoria delle notti romane anni Ottanta: nella Capitale, mai rimpianto in giallorosso, lo ricordano più per quello che per i gol, e il soprannome “pube de oro” non nasce certo per caso. Adesso Renato nel suo Brasile è diventato una specie di santone della panchina, e dopo aver vinto la Libertadores col Gremio, da qualche mese è tornato tecnico di un Fluminense, battagliero ed esperto, che aspetta al varco l’Inter.
stile
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Lo stile sfacciato è rimasto lo stesso di quand’era ragazzo, basta una conferenza di vigilia passata a dire frasi a effetto per accorgersene: “Sappiamo quanto siano forti gli europei, ma questo è solo sulla carta… Molti dicono che sono loro i favoriti, ma in campo poi può succedere qualcosa di diverso…”, ha ammiccato a giornalisti italiani e brasiliani nella sala conferenza del Bank of America Stadium, la casa del Charlotte Fc e dei Carolina Panthers della Nfl. “L'atteggiamento è fondamentale in una partita così importante. Ma il fatto che una squadra come l’Inter sia favorita dipende soprattutto da ragioni economiche: se vai al mercato con 1000 reais, puoi comprare quello che vuoi, se vai con 100 hai meno scelta. È un po’ quello che succede nel calcio, l’Europa ha 1000 reais, noi 100… Ma tutto dipenderà dalla testa dei giocatori…”. E poi, dentro alla sfida ai nerazzurri che gli ha pure “rovinato” il giorno di riposo: “Conosciamo la qualità dell'Inter e non possiamo negarle: li abbiamo studiati bene per neutralizzarli tatticamente e siamo pronti. Pensate che per analizzare questa partita sono rimasto in hotel e mia figlia Carolina mi ha rimproverato perché non sono uscito a cena con lei…”.
la sfida
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Renato ha recuperato l’attaccante Soltedo, disponibile dopo infortunio, e il suo totem Thiago Silva, pronto a riprendere il posto nel cuore della difesa: “Thiago è un giocatore chiave nel mio schema. È un leader, il capitano della squadra, praticamente un allenatore in campo. È una guardia di sicurezza per noi là dietro”. In generale, ha voluto mettere in chiaro che il suo Flu non cambierà, resterà fedele a uno stile brasiliano ma pratico, nonostante il lignaggio del rivale: “Ci alleniamo sempre a ripartire con la palla da dietro, parlo molto con la difesa proprio di questo aspetto. Mi piace il possesso palla e mi piace continuare a giocare. Ma voglio essere molto chiaro: se sei sotto pressione, non ha senso giocare troppo ‘bonito’ perché se perdi palla, è finita. La mia filosofia è nessun rischio e massima concentrazione: se segnano, deve essere per merito loro, non per nostri errori”. Da lì è arrivato l’esempio immaginifico, giusto per colpire l’interlocutore: “Molti dei miei giocatori sono padri di famiglia – ha continuato il tecnico brasiliano -. Così chiedo loro: ‘Voi camminate per il centro commerciale con vostro figlio di un anno e mezzo e gli voltate le spalle?’. Nessuno lo fa… È la stessa identica cosa in una partita di calcio. Se non siete concentrati, succederà qualcosa di brutto”. A sentirlo, il rischio tempesta di fulmini, che ha portato alla sospensione di Benfica-Chelsea, spaventa più Chivu che lui: “La natura è natura, non posso combatterla. E queste sono le regole. In Brasile giochiamo sotto la pioggia, sotto i fulmini, sotto tutto. Qui, se un fulmine cade a 10 km di distanza, ci si ferma… Ma, se la partita si interrompe, la cosa più importante è restare sul pezzo”.

amarcord
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Alla fine, non poteva mancare l’amarcord. Il 62enne allenatore brasiliano ha così parlato del suo passato alla Roma condendo tutto con qualche rimpianto: “In giallorosso non è andata molto bene. Avevo un contratto triennale e il primo anno ho avuto molti infortuni. Il mio presidente era Dino Viola e diceva che era sempre così con i giocatori stranieri: serviva tempo per adattarsi. Ma poi mi ha cercato il Flamengo e sono tornato in Brasile perché non ero felice, volevo giocare. Oggi, con la mia esperienza, probabilmente non sarei tornato indietro perché avevo solo bisogno di tempo: era un altro calcio, un'altra cultura, una nuova lingua”.