Dopo un 2024 che lo ha riportato tra i grandissimi del golf, Matteo mette nel mirino il circuito top: "Negli Usa non ci sono campi più facili, noi europei ci sappiamo adattare a tutto"
Giornalista
21 novembre - 08:08 - MILANO
Ogni traguardo raggiunto apre una nuova porta verso il futuro, tempo di fermarsi ce n’è davvero poco. “Un paio di settimane, non di più. Poi ricomincio”. Matteo Manassero ha appena chiuso il 2024 - una stagione intensa, piena di soddisfazioni – che ha segnato il suo ritorno alla vittoria sul DP World Tour dopo 11 anni e soprattutto l’ha riportato fra i grandissimi del golf. Quand’era ragazzino era considerato la prossima meraviglia, tutto gli veniva facile, poi le cose si sono ingarbugliate. La sua storia è nota, la caduta fino all’Alps Tour, la risalita attraverso il Challenge. Inutile stare a ripetere quello che poteva essere e non è stato. L’unica certezza è che a 31 anni, grazie ai risultati sul DP World, ha conquistato il diritto di giocare sul Pga, il circuito più importante e più ricco. È una di quelle svolte che cambiano una carriera, forse una vita intera. Nei tornei americani ci sono più punti mondiali in palio, più soldi a disposizione. Certo, la concorrenza sarà più spietata, ma i migliori – e Matteo lo è – devono stare con i migliori. Quest’anno poi ci sarà la Ryder Cup, a New York, in settembre. Proprio ieri è stato annunciato che Matteo farà parte della squadra dell’Europa continentale contro la Gran Bretagna nella Team Cup, che della Ryder è una specie di prova generale per costruire un gruppo da cui poi scegliere chi portare a New York: “È davvero un onore far parte di questa squadra, ad Abu Dhabi darò il meglio di me”. E a certi risultati Matteo non è arrivato per caso. In questi anni ha costruito un team di cui si fida e a cui deve la rinascita. Dai tecnici Soren Handsen e Roberto Zappa a Sergio Manenti per la preparazione atletica, dal caddie Job Sugranyes alla “performance coach” Alessandra Averna.
E allora cominciamo proprio dal team: tutti confermati?
“Sìììì, certamente. In questo momento siamo molto orgogliosi del risultato raggiunto. È entusiasmante per tutti avere avuto un anno così gratificante perché - come ho sempre detto - io metto in pratica tante cose che nascono grazie al mio team. È ovvio che poi sul campo ci sono io, però io sono solo il terminale del lavoro di tutti”.
L’anno prossimo avrà la carta Pga, ma anche quella per il DP World, si dovrà dividere su due circuiti. O ci sarà spazio solo per l’America?
“Devo ancora prendere tante decisioni, ma per come è strutturato il calendario credo che soprattutto all’inizio e nella parte centrale dell’anno, diciamo fino ad agosto, sarò maggiormente concentrato sull’America. Dopo di che bisognerà vedere a che punto sarò in classifica e tirare le somme. Magari ci sarà l’esigenza di continuare in America e partecipare ai tornei autunnali per confermare la carta, oppure vedrò se giocare di più in Europa nelle Back 9 Series, le ultime gare della stagione. L’unica certezza è che inizierò giocando soprattutto sul Pga e poi strada facendo vedremo. Sarà una stagione nuova e diversa anche come pianificazione per cui anch’io sono curioso”.
Non sa nemmeno quali saranno i primi tornei?
“Non sono ancora sicuro, sarà una cosa che finalizzerò nelle prossime due settimane. La certezza è che il primo impegno sarà sul DPWorld Tour con il Nedbank a Sun City, in Sudafrica, a inizio dicembre. E a gennaio ci sarà Abu Dhabi con la Team Cup”.
Nei piani c’è un trasferimento in America?
“All’inizio farò avanti e indietro per un po’ di mesi e poi se nel frattempo avrò capito dove sono più a mio agio, dove mi piace stare con mia moglie visto che Francesca mi accompagnerà spesso, allora magari prenderò in considerazione l’ipotesi. Non voglio fare nulla di definitivo dal giorno uno, preferisco fare un passo alla volta. So che fare avanti indietro per tanti mesi diventerà stancante, però preferisco iniziare così piuttosto che fare un passo più lungo della gamba”.
Si dice che i campi americani, in media, siano troppo facili per chi che ha caratteristiche che si adattano più a campi stretti e con difficoltà, per il tipo di giocatore che è lei, insomma. È d’accordo?
“Assolutamente no. Ho giocato un po’ di campi americani in passato e secondo me è un falso mito che siano più facili. Sicuramente hanno caratteristiche più simili uno con l’altro, nel tour europeo giochiamo gare in Asia, in Medio Oriente, in Europa, ovviamente troviamo condizioni diverse, erbe diverse, climi diversi. Noi europei abbiamo più spirito di adattamento, diciamo, però anche in America ci sono campi lunghi, campi stretti, quelli con il vento, quelli con il rough alto e i green duri. Credo che il segreto sia giocare bene e che questo garantisca risultati positivi in tutto il mondo. Non penso di avere un gioco che si adatti bene a una situazione piuttosto di un’altra, in America troverò una nuova sfida e comunque vada imparerò qualcosa, migliorerò…”.
L’America è la terra dei bombardieri, dei giocatori potenti. Un’altra cosa che si dice è che dieci anni fa il tentativo di guadagnare più distanza fu uno dei fattori che la portò alla crisi. È vero?
“Diciamo che la lunghezza era una parte del gioco che cercavo di migliorare, ma non è stato quest’aspetto a portarmi fuori equilibrio anche perché sarebbe stato facile riportarmi indietro, se fosse stato solo quello. Quest’anno mi ha seguito Edoardo Molinari per le statistiche, con lui ho approfondito bene l’argomento, e certamente il tee shot è una parte del gioco su cui lavoro. Però vale quello che dicevo prima per i campi, non è vero che per giocare in America bisogna obbligatoriamente tirare lunghissimo. Bisogna essere precisi dal tee, quello credo che sia vero, però non importa fare obbligatoriamente 300 metri. Chi ci riesce ha semplicemente un’abilità in più... Io cercherò di affinare il più possibile le mie armi, lavorando sui miei punti di forza senza cercare cose che non mi appartengono troppo”.
Chiudiamo facendo un passo indietro. In un 2024 quasi perfetto c’è spazio anche per qualche rimpianto?
“Nessuno. È stata una stagione fantastica sia a livello di risultati sia come progresso nella mia carriera e come crescita professionale. È il mio percorso e sono contento di farlo”.