Il primo esperimento, del Milan, risaliva al 1979, ma arrivò nell'estate del 1995 la storica decisione della Lega Calcio
E da quel momento: tana liberi tutti. Ogni calciatore ebbe modo di scegliere il numero da apporre accanto al proprio nome. Trent’anni fa in Italia si chiudeva l’era della numerazione classica, quella delle maglie dall’1 all’11. Fu una svolta epocale, che spinse il nostro calcio verso una nuova stagione, definitivamente piegata alle ragioni commerciali. Più business, meno sentimento. E (anche) meno formazioni-filastrocche da mandare a memoria, di generazione in generazione. Proprio in questi giorni di luglio del 1995 la Lega Calcio dava il via libera alla nuova numerazione. Era arrivato il momento delle maglie personalizzate, con i numeri che andavano - almeno nell’idea iniziale - dall’1 al 24, con i numeri successivi dedicati ai ragazzi della Primavera che venivano promossi dalla necessità in prima squadra. In verità poi la numerazione venne allargata, dall’1 al 99. Era una novità assoluta, anche se - come vedremo - uno sporadico tentativo era stato fatto quindici anni prima, senza tuttavia che a nessuno venisse voglia di sviluppare l’idea. La Lega ne aveva parlato con i club di Serie A, tutti si erano detti tutti d’accordo. Era il futuro. E il futuro si accetta, per poi provare a gestirlo. Tra i più propensi al cambiamento vi era Massimo Moratti, che proprio quell’anno - a febbraio - era diventato il presidente dell’Inter, rilevando la società da Ernesto Pellegrini. Moratti era un grande appassionato di calcio inglese. Con una certa frequenza, appena poteva, nel week end volava con i figli a Londra, per gustarsi dal vivo le partite della neonata Premier League. Non gli era sfuggito che in Inghilterra - esattamente un anno prima - la numerazione cosiddetta libera era diventata una norma. L’espediente aveva entusiasmato i tifosi, ne aveva beneficiato il merchandising dei club inglesi che - nel territorio specifico del marketing - erano già allora anni luce davanti a quelli italiani.

quante novità
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Erano quelli di metà anni 90 stagioni di novità. La questione dei diritti televisivi era diventata centrale. La Rai aveva perso il monopolio. Le pay-tv si ritagliavano spazi sempre più decisivi nel palinsesto del week end pallonaro degli italiani. E ancora: nel campionato precedente, per esempio, era stata inserita la regola dei 3 punti a vittoria, che avrebbe cambiato nell’anima il gioco stesso e l’approccio alla partita. In quel 1995-96 vennero anche decise le tre sostituzioni, anziché le due previste fino ad allora. Anche a livello di norme arbitrali qualche regola venne ritoccata. L’intervento falloso veniva punito abolendo l’alibi dell'involontarietà. E ancora: le violenze consumate fuori dagli stadi non comportavano più sanzioni per le società. Insomma, il calcio italiano procedeva con un restyling a tutto tondo. Ma nell’immaginario del tifoso, più di ogni altra cosa a colpire fu proprio la novità dei numeri liberi e dei nomi sulle maglie. Gli italiani non vi erano abituati. I concetti chiave per innescare i meccanismi che avevano acceso la rivoluzione erano quelli riferibili ai ricavi, all’innovazione e alla spettacolarizzazione di un calcio che - soltanto un anno prima - aveva vissuto un antipasto di futuro al Mondiale americano. Il calcio italiano guarda all’America. Ma a quella del basket. Il modello è quello della NBA. Nel giro di qualche mese - dopo l’innovazione delle maglie personalizzate - la Lega Calcio tenta di centralizzare le vendite del merchandising attraverso la creazione di un proprio marchio, quello che ancora oggi vediamo impresso sulla parte alta della manica delle maglie. L’idea è quella di distinguere tutti i prodotti del calcio, proprio come avveniva all’epoca e avviene oggi nella Nba. È una novità di rilievo, che passa quasi sottotraccia ma che cambierà le sorti del pallone italiano.
"Milano da bere"
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Eppure fino ad allora le idee che arrivavano da oltreoceano venivano considerate, con accezione negativa, delle “americanate”. Ora però le cose erano cambiate. In verità - come anticipato prima - già alla fine del decennio dei 70 era stato fatto un esperimento in tal senso. Ed era nato a Milano, la “Milano da bere” che in quegli anni aveva centralità nel mondo della moda, dello stile e della creatività. Il Milan 1979-80 era fresco Campione d’Italia, pochi mesi prima aveva vinto lo scudetto della Stella. Il designer di Linea-Milan, l’azienda chiamata a rivoluzionare il look del club, ebbe carta bianca e - prendendo come modello i Cosmos di New York che, da Chinaglia a Pelé, avevano nomi e numeri personalizzati - ideò una maglia completamente inedita. Era una casacca con le righe larghe, stile Anni 50. con il marchio di un diavoletto. Sui calzoncini venne stampata una “M”. Ma la novità più rilevante riguardava - appunto - i nomi sopra i numeri (sempre dall’1 all’11). L’esperimento, dopo un primo tentativo del Monza in Coppa Italia, in Serie A prese forma il 25 novembre 1979. A San Siro si giocava Milan-Napoli. Il Milan scese in campo con questa formazione: 1 Albertosi, 2 Collovati, 3 Maldera, 4 De Vecchi, 5 Bet, 6 Baresi, 7 Buriani, 8 Bigon, 9 Novellino, 10 F.Romano, 11 Chiodi. Quella partita - il destino sa essere beffardo - venne sospesa per nebbia. Era il futuro, ma nessuno se ne accorse.
numeri... non al lotto
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I calciatori scelsero allora i numeri che più preferivano. Rimasero (quasi) tutti e salvo rare eccezioni, nell’ambito di una numerazione che andava dal numero 1 al numero 24, come concordato all’inizio. Nel Milan per esempio Coco (27) e Costacurta (29) sconfinarono, ma pochi altri seguirono il loro esempio. Il giovane Bobo Vieri, centravanti dell’Atalanta, scelse il numero 20; l’amico Pippo Inzaghi del Parma si prese il 16. Luca Vialli, leader della Juventus, mantenne il 9; così come Ravanelli l’11. Il numero 10, sicuramente il più ambito di tutti, diede cittadinanza a qualche campione certificato ma pure a figurine che - a trent’anni di distanza - appaiono un po’ scolorite. Nel Napoli la 10 finì sulle spalle di Fausto Pizzi, a Parma la diedero a Gianfranco Zola. Rui Costa (Fiorentina), Savicevic (Milan) e Abedì Pelé (Torino) se la presero di diritto, a Udine toccò a Giovannino Stroppa, nel Cagliari - dopo qualche discussione nello spogliatoio - ebbe la meglio Lulù Oliveira. In fondo ci fu una sobrietà diffusa nella scelta, la maggioranza optò per maglie, per così dire, affini al ruolo. Anche i portieri si dimostrarono ragionevoli, prendendo il numero 1 e, le riserve, il 12. Negli anni a seguire i calciatori si concessero libertà bizzarre, pescando a raglio dall’1 al 99, ogni tanto per ragioni di sentimento, più spesso per questioni di merchandising