(di Dario Marchetti)
Dubai è pronta a riempirsi di stelle.
Come ogni anno il Globe Soccer Awards, in programma il 28
dicembre a Dubai, diventa la passerella natalizia di grandi
campioni come Mbappe, Yamal, Luis Enrique, Flick e chi più ne ha
più ce ne metta. Si premiano i migliori del calcio
internazionale, ma da quest'anno c'è una nuova categoria, quella
dedicata ai mental coach, figura sempre più presente nel mondo
dello sport e tra i candidati c'è un'italiana, Nicoletta
Romanazzi. Da oltre vent'anni sul campo, seguendo grandissimi
campioni come Marcell Jacobs o Gigi Donnarumma, tanto per
citarne due. "Sono felicissima che sia stato inserito questo
premio anche per la mia categoria - dice Romanazzi al telefono
con l'ANSA -. Da anni porto avanti una vera e propria battaglia
sul mio lavoro e vedere questo riconoscimento mi soddisfa".
Il mondo del coaching, infatti, negli ultimi anni è stato
protagonista di una crescita esponenziale, nonostante non
manchino tutt'ora delle resistenze. "Secondo me la percezione in
Italia è cambiata con la vittoria di Jacobs ai Giochi di Tokyo -
ci racconta -. Ringraziandomi in mondovisione, ha fatto sì che
gli atleti piano, piano si siano aperti a questa figura. Marcell
l'ha sdoganata, ha rotto gli argini". Oggi i due non collaborano
più, per questo sulla scintilla persa dall'oro olimpico nei 100
metri si limita a sottolineare come negli anni ne abbia ha
passate tante. "Ha avuto molti cambiamenti e situazioni che lo
hanno addolorato - spiega . E' stato un susseguirsi di cose che
forse lo hanno appesantito".
C'è un fil rouge, infatti, di tutti i top performer che ha
seguito e continua a seguire: la vena competitiva. "E' vero che
ogni storia è a sé - dice -. Ma il 99% delle volte mi sono
ritrovata a dover abbassare la loro competitività che è molto
alta e non lascia spazio al riposo, al piacere e al
divertimento. Il rischio che si corre nel tempo, nel caso dei
manager, è il burn out, per gli atleti di incorrere in
infortuni. Io li aiuto a trovare un punto di equilibrio". Chi
quest'equilibrio lo ha trovato, ad esempio, è Sinner. "Viene
gestito benissimo - le parole ancora di Romanazzi -. Quando
rinuncia a un torneo o si prende un momento per riposare lo fa
perché gli permette di restare in equilibrio".
E se gli viene chiesto con chi le piacerebbe ancora lavorare
non ha dubbi: "Con qualcuno della Formula 1 o del tennis, magari
Musetti o Cobolli. Tolgo Jannik solo perché quando lo guardo non
saprei come migliorarlo (ride, ndr). Poi il mio lavoro è anche
quello: aiutare le persone già forti a fare ancora di più". E
nel mondo dello sport di esempi di chi si affida ai mental coach
ce ne sono sempre di più, anche se alcune discipline, come il
calcio, si sono mostrate all'inizio meno aperte alla novità. "Un
po' di resistenza rimane per diversi motivi - sottolinea
Romanazzi -. C'è una vecchia guardia che non ha avuto bisogno di
una figura del genere e nemmeno esisteva, per questo non la
capiscono. Tante volte ho sentito dire dagli allenatori che ai
loro tempi non ce n'era bisogno e che i grandi campioni
esistevano comunque, ma io risponderei: 'Chissà invece quanti
campioni si sono persi perché gli è mancato un supporto
mentale'".
Poi c'è anche un altro tema: "I ragazzi hanno ancora un po'
paura, pensando che si debba ricorrere a questa figura perché
c'è un problema, non rendendosi conto che serviamo a prevenir la
potenziale crisi o ansia da prestazione". Per questo nei sogni
di Romanazzi c'è di portare il coaching nelle scuole. "Vorrei
insegnare ai ragazzi come far diventare la mente un alleato".
Venticinque anni fa sarebbe stato impensabile, oggi non più.
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