Il centrocampista brasiliano ex Lazio, Inter e Juve: "Volevo diventare elegante come i mancini, così iniziai a scrivere e a giocare di sinistro. All'inizio la tattica non mi piaceva, poi con gli scacchi e Allegri alla Juve..."
“Un calciatore capitalista con un tocco di socialismo”. Anderson Hernanes, 40 anni, “Profeta” per tutti tranne che per sua moglie — “lei usa un soprannome che capiamo solo noi” —, si definisce così. “Il calcio di oggi è socialismo. Prima un fantasista come me dribblava e basta, ora ripiega in difesa. Io ero estro e anarchia, non sopportavo gli ordini. Lazio, Inter, Juve, San Paolo, nazionale. Sono sempre stato me stesso”.
A fine carriera si è reinventato su più fronti.
“Sui social parlo di tattica, poi mi diverto su Dazn col nuovo programma Vamos, dove comandano l’analisi e la profondità. Sono felice dell’opportunità che mi hanno dato. Vedo dozzine di partite ogni giorno e curo la mia tenuta nelle langhe, “Ca’ del Profeta”, dove produco anche il vino, e ogni tanto vado a giocare col Sale in Promozione”.
Com’è diventato un patito di tattica?
“Grazie agli scacchi e a ciò che ho studiato a scuola. All’inizio odiavo l’analisi video, ne ho capito l’importanza solo a fine carriera. Va comunicata come se i giocatori fossero i pezzi di una scacchiera. La dinamica della costruzione mi è sempre piaciuta. Se non fossi diventato un calciatore avrei fatto l’ingegnere: amo l’architettura”.
E fare... profezie. L’hanno sempre chiamata così?
“No. A Itambè, profonda campagna brasiliana, un posto pieno di campi di terra e sabbia, ero 'il ragazzo della piantagione da zucchero'. Diventai 'Il profeta' perché citavo sempre i passi della Bibbia”.
Il suo legame con la fede come nasce?
“Ai tempi del San Paolo andai in chiesa con un compagno di squadra. Il discorso del prete mi colpì. Da lì in poi iniziai a leggere la Bibbia”.
Qual è il passo che più la rappresenta?
“Libro di Isaia, capitolo 30, versetto 15. 'Nella calma e nella fiducia sarà la vostra forza'. La mia carriera ne è un esempio: da piccolo non avevo forza nelle gambe, non riuscivo a correre bene, ma attraverso l’allenamento sono migliorato. Inoltre, a un certo punto scelsi di diventare... mancino. Volevo essere elegante come loro. Cambiai mano per scrivere e anche il piede con cui calciavo gli angoli e le punizioni”.
E segnava lo stesso, esultando con la capriola.
“Lì c’è tutto me stesso. La libertà di un ragazzo pieno di sogni”.
Il primo gliel’ha realizzato la Lazio: come arrivò?
“Tare piombò in Brasile per conoscermi nel 2010. Mi voleva anche l’Atletico Madrid, avevano inviato una maglia col mio nome che ancora conservo, ma prima di andar via dal San Paolo volevo mettere la mia foto accanto a quelle dei giocatori che avevano vinto un trofeo. E ci sono riuscito: due campionati brasiliani. Io sono così, vivo di obiettivi”.
In biancoceleste quali erano?
“Vincere lo scudetto e giocare la Champions. La prima stranezza vista in Italia fu questa. Un prete una volta mi disse che dall’altra parte dell’Oceano il concetto di speranza era diverso. Io ambivo a vincere il titolo, ma a Roma gli allenatori non erano del mio stesso pensiero”.
Altre stranezze, invece?
“La tattica. Stefano Mauri mi disse: 'Prima pensiamo a non prendere gol'. Poi il derby. Ho vinto la storica Coppa Italia del 26 maggio 2013: due giorni dopo, a Piazza di Spagna, i tifosi fecero il funerale della Roma con tanto di bara e gente mascherata, come se fossero in lutto”.
Cos’è che ti ha fatto pensare: “Roma è folle”?
“Un corriere si tolse i pantaloni davanti all’ingresso di casa mia. Voleva farmi vedere un tatuaggio dedicato alla Coppa Italia. Alla Lazio sono stato da Dio: Resta il rimpianto di aver sfiorato due qualificazioni in Champions, una per differenza reti. Avremmo meritato di andarci”.
E se le dico “Profe’, non te ne andare”?
“Il mio addio tra le lacrime, fuori Formello, dopo tre anni e mezzo straordinari. Il mio miglior calcio. Sono sincero: era il momento giusto per andar via, ma lasciare la Lazio fu tremendo. Mi ero messo d’accordo con un ragazzo per regalargli le mie scarpe, ma quando lui mi disse così scoppiai a piangere. Nei giorni successivi mi scrissero diecimila laziali, cambiai il telefono e conservai lo screen col numero di messaggi”.
L’Inter che è esperienza è stata?
“Formativa. Arrivai lì per restare a vita e vincere lo scudetto, ma non fu così. Mi pento solo di aver esultato all’Olimpico con la capriola, contro la Lazio. Lotito aveva detto che vendermi era stato un affare”.
Alla fine, lo scudetto l’ha vinto alla Juve.
“Un’azienda. Allegri mi faceva fare il regista: non mi piaceva, ma la mia visione del calcio è cambiata lì. La Juve è stata la squadra più forte in cui abbia giocato. Ricordo una BBC impenetrabile, le scintille tra Chiellini, Mandzukic e Higuain. Arrivò per 90 milioni, passò un mese di precampionato senza segnare. Pensavo: 'Ma com’è possibile?'. All’improvviso, segnò tre gol in tre minuti durante una partitella. Fenomeno. Lasciai per andare in Cina perché ero fuori dai piani di Allegri”.
La delusione più grande?
“Il 7-1 al Mondiale 2014 contro la Germania. Dipendevamo da Neymar, sottovalutammo i tedeschi peccando di umiltà”.
E lei pensa di essere stato sottovalutato?
“Ho avuto ciò che le mie capacità mi hanno permesso. L’Inter mi pagò 15 milioni, ma vedendo i prezzi di oggi sarei costato di più, ovvio”.
Il più forte con cui ha giocato?
“Ronaldinho. Abbiamo condiviso l’Olimpiade del 2008. Aura allo stato puro. Oggi sui social si parla così, vero?”.











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