La Norvegia di Haaland è temibile, ma questa Italia ha tutto per fare risultato a Oslo e proseguire serena
C’è una nazionale che ha vinto quattro Mondiali, giocato sei finali ed è arrivata tra le prime quattro in otto edizioni. Una nazionale che perde una partita su cinque (soltanto il Brasile ha fatto meglio, il 17% di ko) e subisce meno di un gol a gara (0,93 come, vedi un po’, l’Inghilterra). Una nazionale che ha scritto la storia del calcio, da Pozzo a Lippi passando per Bearzot, e tranne la prima edizione in Uruguay nel 1930, saltata per ragioni economiche, e quella del 1958, persa nel drammatico spareggio con l’Irlanda del Nord, non aveva mancato un Mondiale. Quasi sempre da protagonista. Otto volte semifinalista su diciotto fasi finali: una volta su due tra le prime quattro. Questa squadra è l’Italia. C’era una volta l’Italia. Per i bambini degli anni 70 il Mondiale era tutto: i racconti e le immagini di Italia-Germania 4-3, Argentina 78 e Spagna 82 sono diventati capitoli della nostra storia. Costume, società, emozione, patrimonio genetico. Rossi e Bearzot, lo scopone con Pertini e le dirette con la voce dall’eco “internazionale” di Martellini e Pizzul. Sono la nostra memoria oltre il calcio. Siamo diventati tifosi anche per questo.
generazione Z E Alpha
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Quelli della Generazione Z e dell’Alpha, le ultime del nuovo secolo, così almeno per i sociologi, non hanno avuto il piacere di dedicare giugno e luglio alla tv, sdraiati sul divano, la bandiera accanto. E non perché in Qatar si sia giocato a dicembre: è che l’Italia manca dal 2014, il suo ultimo e, per la verità, prescindibile Mondiale. In Nordamerica saranno dodici anni senza. Do-di-ci. Quasi dal 2006 una maledizione incombesse sull’azzurro. Ogni epoca ha naturalmente la sua storia, le sue memorie: le notti magiche di Schillaci a Italia 90, le lezioni americane di Baggio e, in fondo, anche le porcate di Moreno e della Fifa del 2002, alibi credibile per una Nazionale altrimenti da primi posti. Quindi l’apoteosi di Berlino. Poi il niente.
decadenza
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“Maledizione” è il modo scaramantico per raccontare una certa decadenza del nostro movimento, combinata con la crisi delle vocazioni, se Baggio, Pirlo e Riva non ci sono più..., e con un calcio globalizzato nel quale la Svizzera può eliminare l’Italia, la Macedonia giocarle un brutto scherzo e la Norvegia metterle paura prima di cominciare. Non che il nuovo ordine mondiale sia un problema soltanto per noi, ma Spagna e Francia hanno più anticorpi oggi. E poi quattro anni fa ci siamo presi l’Europeo con la Nazionale di Mancini, bella, spettacolare e vincente come poche. Ma il brutto pensiero che s’insinua è che sia stato un episodio in mezzo al deserto.
brutte figure
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Eliminati al primo turno nel 2010 in Sudafrica. Fuori sempre subito, in Brasile, quattro anni dopo. Fuori, letteralmente purtroppo, da Russia e Qatar. E ora abbiamo paura di non sopravvivere alla terza apocalisse. Contro la Svezia, nello spareggio del 2017, il Mondiale ci scivolò dalle mani, tipo quando ti cade una cosa in mare, quella scende e non l’afferri più. Con una discreta dose di leggerezza, di tutti s’intende, quattro anni dopo abbiamo ospitato la Macedonia pensando al Portogallo del turno successivo: centrati in pieno. Escluso di ricadere nell’ennesimo peccato di presunzione, dobbiamo ammettere che non siamo più quelli di una volta ma, accidenti, un sorteggio senza la più forte dell’altra fascia, prima o poi, ci capiterà. Intanto, Haaland, Sorloth e Odegaard: grazie, simpatiche palline. E alla vigilia della sfida di Oslo, la più difficile, naturalmente a giugno, sia mai, la difesa sta cadendo un pezzo dopo l’altro, gli interisti arrivano in chissà quale stato, Acerbi ci lascia e ancora mancano tre giorni. E quindi?
niente scherzi
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Quindi non scherziamo, ragazzi, ma sul serio. Spalletti oggi è l’azzurro brother in missione per conto dell’Italia. Tutti, da Donnarumma a Kean, non possono non aver presente che cosa significherebbe un 2026 ancora a casa o in bilico, speriamo nei playoff, oddio chi ci capiterà, e tutto un armamentario di dubbi e dolori che purtroppo conosciamo bene. “Chiuso per calcio” era il geniale titolo del saggio di Eduardo Galeano che, a ogni Mondiale, si sprangava in casa un mese per vedere tutte le partite. Da noi “chiuso per calcio”, a giugno, sta assumendo un altro significato, nel senso che possiamo permetterci le ferie mentre gli altri sudano e lavorano. Basta. Azzurri, ridateci il Mondiale. Sappiamo che, oltre tutti questi piagnistei, potete, possiamo, farcela. Anche contro questa “terribile” Norvegia.